Negli ultimi anni si registra, nelle migliori espressioni della società civile, una crescente consapevolezza dell’espansione delle mafie in diverse zone dell’Italia settentrionale, che tradizionalmente erano ritenute immuni da questo fenomeno criminale, per lungo tempo considerato espressione di una “cultura meridionale”, quasi un “modo di essere” della società di determinate regioni del Sud. Se l’espansione delle organizzazioni mafiose in aree non tradizionali è avvenuta per fasi e con modalità differenti, dalle prime presenze importanti di cosa nostra e dai primi insediamenti di ‘ndrine calabresi negli anni cinquanta-sessanta, fino ad una progressiva affermazione della ‘ndrangheta negli anni Novanta, oggi si può affermare che quest’ultima organizzazione riveste un ruolo assolutamente dominante in quasi tutte le Regioni italiane.

- Di Silvia Sticca
-Se la mafia fosse stata semplicemente la “metafora per eccellenza del Mezzogiorno tradizionale”, essa si sarebbe dovuta estinguere con l’avviarsi dei processi di modernizzazione, che invece hanno portato al suo allargamento geografico verso zone tradizionalmente ritenute immuni dalla contaminazione criminale.
Alcuni studiosi del fenomeno hanno anzi sostenuto che “la criminalità organizzata internazionale ha globalizzato le proprie attività per le stesse ragioni delle imprese multinazionali legittime”, tanto che i concetti di radicamento e controllo territoriale sarebbero ormai obsoleti per quella che è una multinazionale globale del crimine la quale “trascende la sovranità che organizza il sistema dello Stato moderno”, nel quadro di un più generale contesto di deterritorializzazione del potere economico.
Pur non trascurando le differenti dimensioni territoriali, organizzative, economiche e sociali che connotano le varie organizzazioni criminali di stampo mafioso, l’elemento che le accomuna rimane il metodo, che assume tuttavia una nuova fisiognomica e che per questo rende necessario un mutamento nei criteri di riconoscimento e di contrasto del fenomeno. Si registra come elemento costante e consolidato in tutti i territori e in tutte le organizzazioni la riduzione progressiva delle componenti violente e militari del metodo mafioso. Esse cedono il passo alla promozione di relazioni di scambio e collusione nei mercati illegali e ancor più legali.
L’individuazione delle condotte riconducibili alle organizzazioni mafiose, come tali pericolose e meritevoli di adeguata risposta sanzionatoria, diventa quindi più complessa e comporta una rimeditazione degli strumenti descrittivi dei comportamenti illeciti.
Ma ancor più questa evoluzione impone un ripensamento delle politiche antimafia mirato maggiormente ai “fattori di contesto”, ovvero alle condizioni politiche, sociali ed economiche che favoriscono la genesi e la riproduzione delle mafie, in uno scenario in cui risultano sempre più stretti gli intrecci tra criminalità mafiosa, corruzione, criminalità economica e dei colletti bianchi.
Se quindi il fronte di una nuova più consapevole prevenzione diventa irrinunciabilmente strategico, d’altro canto anche l’utilità degli strumenti repressivi va valutata con attenzione censendone le concrete utilità e gli insuperabili limiti.
In questo contesto le organizzazioni mafiose storiche italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni, assumendo formule organizzative e modelli di azione sempre più multiformi e complessi.
Le principali dimensioni di questo fenomeno si riscontrano nel progressivo allargamento del raggio d’azione delle mafie in territori diversi da quelli di origine storica; nell’assunzione di profili organizzativi più flessibili, spesso reticolari, con unità dislocate su territori anche lontani e dotate di autonomia decisionale; nella più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale; nel mutamento nei rapporti intessuti con i contesti sociali e con i territori, dove al generale ridimensionamento dei tratti più esplicitamente connessi all’intimidazione violenta si affianca la promozione di relazioni di collusione e complicità con attori della cosiddetta “area grigia” (imprenditori, professionisti, politici, burocrati e altri).
Emblematico in tal senso è il reinvestimento dei proventi illeciti nell’economia pubblica, dove le mafie prediligono il ricorso sistematico alla corruzione per facilitare l’infiltrazione negli appalti e nei sub-appalti.
La realtà fotografata dai recenti orientamenti giurisprudenziali acclara una vertiginosa proliferazione di sotto- organizzazioni criminali che mutuano metodi, stili comportamentali, formule, riti di iniziazione dalle corrispondenti associazioni madri cercando di trapiantare al di fuori della terra di origine schemi e strutture organizzative tipicamente mafiose.
Se nelle zone territoriali le associazioni di tipo mafioso risultano ancora dotate di poteri e di un’organizzazione anche militare sicuramente più imponente e strutturata, il fenomeno, con caratteristiche diverse e meno intense, sebbene più difficili da contrastare, si è esteso in larga parte del Paese. Ciò che sembra mutare sonole diverse modalità di infiltrazione mafiosa nelle aree non tradizionali, nella quali si riscontra una comprensibile attenzione della nuova mafia imprenditoriale per le attività economiche più redditizie. In particolare le aziende, prevalentemente del settore edile, e le opportunità affaristiche che gravitano attorno ad esse.
Tale mutamento risulta confermato dalle relazioni annuali della Direzione Nazionale Antimafia, in particolare dal 2016 in poi e dalle relazioni della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre organizzazioni criminali, anche straniere.
Si è di fronte ad un complesso di emergenze significative, ancora di più che in passato, di una ‘ndrangheta presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell’amministrazione pubblica e dell’economia, creando, in tal modo, le condizioni per un arricchimento, non più solo attraverso le tradizionali attività illecite del traffico internazionale di stupefacenti e delle estorsioni, ma anche intercettando, attraverso prestanomi o, comunque, imprenditori di riferimento, importanti flussi economici pubblici ad ogni livello, comunale, regionale, statale ed europeo.
Questi rappresentano nell’attuale panorama dell’economia italiana, gli obiettivi privilegiati dell’espansione della criminalità organizzata e del suo ingresso nel mercato legale, attuato mediante forme di condizionamento mafioso ovvero attraverso l’immissione di flussi finanziari di origine illecita, che determinano un effetto di distorsione della concorrenza e di assuefazione del mondo imprenditoriale a prassi illegali.
Al contempo, però, anche le diverse Direzioni Distrettuali del territorio nazionale, in particolare quelle di Milano, Genova, Torino, Bologna e Roma, hanno portato a compimento importanti indagini le cui risultanze confermano la diffusa presenza della ‘ndrangheta in quasi tutte le regioni italiane nonché in vari Stati, non solo europei, ma anche in America, Stati Uniti e Canada ed in Australia. Continuano, poi, ad essere sempre solidi, i rapporti con le organizzazioni criminali del centro/sud America con riferimento alla gestione del traffico internazionale degli stupefacenti, in primis la cocaina, affare criminale in cui la ‘ndrangheta continua mantenere una posizione di assoluta supremazia in tutta Europa.
Una presenza, quella della ‘ndrangheta nel nord del Paese che, per quanto notevolmente diffusa, non presenta, però, ovunque le stesse caratteristiche, dovendosi parlare, in alcuni casi, di un vero e proprio radicamento con l’insediamento di stabili strutture operative, mentre in altri territori di ampliamento del riciclaggio e reimpiego dei profitti illeciti.
Se le espressioni, le localizzazioni e le“ambizioni” delle mafie stanno cambiando, rendendo l’infiltrazione criminale inafferrabile e lontana dai modelli riconducibili al noto archetipo manifestatosi nel meridione d’Italia nella seconda metà del secolo scorso, occorre chiedersi se la fattispecie prevista dall’art. 416 bis c.p. sia ancora adeguata a contrastare il fenomeno criminale nelle sue mutanti moderne manifestazioni.
La mutevolezza del fenomeno mafioso e le sue nuove forme di espressione impongono una seria riflessione sulla attuale adeguatezza degli strumenti di contrasto disponibili.
Acquisito il dato della mutazione del fenomeno negli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è stata investita della problematica inerente alcune vicende processuali relative a soggetti ritenuti appartenenti e collegati alle cellule della ‘ndrangheta calabrese, ma residenti e operativi in regioni diverse da quelle di origine e presenti ora in altre zone del territorio c.d. refrattarie o all’estero ed ancora silenti. Gruppi che non si sono ancora espressi attraverso percepiti e riconosciuti atti di intimidazione in territori dove la società civile si presenta generalmente refrattaria alla comprensione dei codici di comunicazione della mafia. Tali cellule sono solo apparentemente inerti: in realtà sono pronte a produrre il pervasivo inquinamento delle dinamiche economiche e sociali tipico delle mafie avvalendosi di una forma di intimidazione denominata “silente”.
Ossia di quella particolare manifestazione del metodo intimidatorio che non ricorre ad espliciti atti di violenza e minaccia, come omicidi e attentati di tipo stragistico, ma che si avvale di quella forma di intimidazione, per alcuni versi ancora più temibile, caratterizzata da messaggi intimidatori indiretti o larvati, che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere.
Tali associazioni, quando si manifestano con modalità silenti, si avvalgono della fama criminale conseguita nel corso degli anni nei territori di origine e successivamente diffusa ed esportata in altre zone del territorio nazionale (in particolare, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, ed anche oltre i confini nazionali come nel caso di Svizzera, Germania, Olanda e Stati Uniti).
In tal caso l’associazione ha raggiunto una tale forza intimidatrice da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito.
I processi alla ‘ndrangheta che negli ultimi anni hanno riguardato la predetta associazione insediata nei cd. territori refrattari portano il nome delle rispettive operazioni investigative (così, in particolare Minotauro e Albachiara sulla ‘ndrangheta Piemontese, Infinito sulla ‘ndrangheta insediata in Milano, Maglio e La svolta su quella ligure)
Nei menzionati processi il tema della mafia silente è emerso ed affrontato poiché ricorreva la situazione fattuale di seguito descritta: dai dati processuali è risultata dimostrata la dislocazione sul territorio di diversi “locali” di ‘ndrangheta; più specificatamente è risultata pacifica e probatoriamente cristallizzata (attraverso operazioni di intercettazione di conversazioni/comunicazioni e le propalazioni di collaboratori di giustizia) la presenza di gemmazioni, filiazioni, articolazioni della ‘ndrangheta calabrese in Piemonte, Lombardia e Liguria.
La ‘ndrangheta, infatti, ha come proprio modulo di diffusione quello di riprodurre sui territori dove opera le proprie strutture organizzative chiamate “locali”.
A tali strutture, che hanno una specifica componente personale e territoriale, si accompagnano le cd. ‘ndrine, concetto più sfumato che concerne ora l’appartenenza alla medesima famiglia di sangue, ora la provenienza geografica da un determinato comune calabrese. La ‘ndrina può operare all’interno di un locale di ‘ndrangheta oppure, se non incorporata nel locale, deve “rendere conto” delle proprie attività non solo al locale di origine insediato in Calabria, ma anche a quello del territorio dove in concreto si trova ad operare.
La ‘ndrangheta quale tipica organizzazione di stampo mafioso è stata introdotta nel testo dell’art. 416 bis c.p. nel 2010. L’art. 6, comma 2 del d.l. 4 febbraio 2010, n. 4, convertito, con modificazioni, nella L. 31 marzo 2010, n. 50 ha, infatti, inserito il termine ‘ndrangheta nel testo della fattispecie così tipizzandola nel novero delle c.d. “mafie storiche”.
Dunque, appare chiara la prospettiva d’azione che ha determinato il legislatore ad inserire nel corpo dell’art. 416 bis c.p. il termine ‘ndrangheta: riconoscere il carattere unitario dell’associazione delinquenziale e far sì che la giurisprudenza, a sua volta, recepisca l’indicata caratteristica del sodalizio.
La nozione di unitarietà della ‘ndrangheta, a seguito della modifica legislativa, ha trovato riscontro in molteplici ordinanze e sentenze, di merito e di legittimità. Tra le sentenze di merito, merita particolare menzione quella pronunciata in sede di giudizio abbreviato dal GUP presso il Tribunale di Reggio Calabria, nell’operazione Crimine(Trib. Reggio Calabria sent. n. 106 del 2012).
Il giudice nella parte motiva infatti scrive: “Le plurime e chiarissime emergenze probatorie di questo processo […] in stretto raccordo con le straordinariamente convergenti acquisizioni delle indagini parallele Minotauro (DDA di Torino) ed Infinito (DDA di Milano) conducono inequivocabilmente (e, potrebbe dirsi, inesorabilmente) nel senso della affermazione della tendenziale unitarietà della organizzazione criminale di stampo mafioso denominata ‘ndrangheta”.
L’operazione Crimine diretta dalle DDA di Milano e Reggio Calabria portò allo svelamento della fitta presenza ’ndranghetista nel mondo politico ed economico lombardo, “locali” della ‘ndrangheta sparsi per Milano e dintorni puntavano agli appalti Expo 2015.
Deve necessariamente partirsi da “Crimine” perché è l’investigazione che si è sviluppata nei territori ove ha sede la casa madredel fenomeno ’ndranghetista, che, quindi, ha analizzato il fenomeno, il suo primigenio archetipo, laddove è più strutturato e virulento, ove l’organizzazione è nata, cresciuta e da dove, poi, è partita per imporsi a livello nazionale ed internazionale. Si tratta, attualmente, del procedimento “pilota” sul fenomeno, quello da cui si deve necessariamente partire per comprenderlo, anche avuto riguardo ai due coevi e paralleli procedimenti avviati dalle DDA di Milano (cd Infinito) e di Torino (cd Minotauro), pure di eccezionale rilievo in quanto hanno dato conto delle impressionanti dimensioni raggiunte dalla proliferazione del fenomeno ‘ndranghetisticonel Nord Italia, ad onta di un diffuso atteggiamento mentale che, in modo oggettivamente miope, tendeva a sminuirlo.
Il medesimo concetto di unitarietà dell’associazione emerge ancor più chiaramente in un successivo provvedimento nel quale il Supremo collegio conferma la pronuncia di condanna nei confronti degli appartenenti al locale di ‘ndrangheta del “basso Piemonte” (cd. operazione Albachiara Cass.Nr. 3166/2015).
La Corte, nella sentenza in esame, preliminarmente evidenzia come entrambe le sentenze di merito abbiano riconosciuto l’esistenza di una struttura criminale riconducibile al tipo normativo ‘ndrangheta e che diversi imputati nel processo hanno ammesso di appartenervi.
Il contrasto su cui la Corte focalizza l’attenzione, ovvero quello concernente la mera potenzialità o l’attualità della forza incriminatrice, viene affrontato partendo dalla dicotomia presente nella realtà fenomenica mediante cui la criminalità organizzata ha modo di manifestarsi. Tale realtà presenta, da un lato, strutture criminali autonome ed originali, che tuttavia possono fare ricorso allo stesso “modus operandi”criminale, proprio delle mafie c.d. storiche, quindi facendo ricorso alla forza dell’intimidazione che promana dalle forme criminali associative.
È, poi, rilevante notare che la Corte richiami le pronunce di legittimità (Cass. n. 4305/2012 Caridi; n. 4304/2012 Romeo) ed affermi di condividere quanto ivi statuito: “questa Corte ritiene configurabile il reato associativo in presenza di una mafia silente purché l’organizzazione sul territorio, la distinzioni di ruoli, i rituali di affiliazione, il livello organizzativo e programmatico raggiunto, lascino concretamente presagire […] la prossima realizzazione di reati fine dell’associazione, concretando la presenza del ‘marchio’ (‘ndrangheta), in una sorta di ‘franchising’ tra ‘province’ e ‘locali’ che consente di ritenere sussistente il pericolo presunto per l’ordine pubblico che costituisce la ‘ratio’ del reato di cui all’art. 416-bis c.p.”
La medesima elaborazione concettuale si rinviene nelle pronunce relative alla costituzione di locali di ’ndrangheta lombarde nella c.d. operazione Infinito (Cass. Pen. n. 30059/2014 e n. 36447/2015), risultando probatoriamente dimostrati collegamenti organizzativi tra i locali insediati sul territorio lombardo caratterizzati da unitarietà e nell’operazione “Colpo di Coda” (Cass. n. 35998/2013).
La Corte, nelle citate sentenze, rileva che le associazioni di stampo mafioso, come la ‘ndrangheta, a causa della fama acquistata mediante atti di violenza o di minaccia a danno di chiunque ne ostacoli l’attività, sono in grado di incutere timore per la loro stessa esistenza. Le pregresse attività criminali, infatti, presuppongono uno spessore qualitativo, territoriale, mediatico tale da conferire una capacità promozionale all’espansione del timore, dell’assoggettamento, e dell’omertà nella collettività originaria calabrese ed in tutte le altre in cui l’associazione abbia deciso di radicarsi e di agire. L’azione del sodalizio “delocalizzato” è finalizzata alla realizzazione del programma finale e di un programma intermedio, identificato quest’ultimo nell’intenzione di ricorrere alla forza del vincolo associativo, ove il messaggio fondato sulla fama, non abbia dato i previsti risultati di adeguamento degli altrui comportamenti.
Un cambio di rotta della Cassazione sulla necessità dell’esternazione del metodo mafioso si rinviene in una pronuncia in merito al processo Maglio 3 relativo alla presenza della ‘ndrangheta in Liguria.
La Corte ha ritenuto il carattere mafioso di strutture delocalizzate di ’ndrangheta in relazione a locali liguri osservati nel contesto dell’operazione Maglio, identificata come Maglio 3 ed affronta il tema dell’intimidazione, sostenendo che, quanto ad esse, cui sono equiparate le cd. mafie “atipiche”, per la configurabilità del carattere della mafiosità “non è necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice.”
A breve distanza dal provvedimento restitutorio con cui il Primo Presidente della Cassazione ha affermato non sussistere un contrasto giurisprudenziale sulla necessità o meno di esteriorizzazione del metodo mafioso ai fini dell’integrazione del delitto ex art. 416 bis c.p., essendo pacifico che l’associazione di tipo mafioso implichi la capacità di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, si pronuncia la Seconda Sezione Penale della Cassazione. La stessa ritiene che “Richiedere ancora oggi la prova di un’effettiva estrinsecazione del metodo mafioso potrebbe tradursi nel configurare la mafia solo all’interno di realtà territoriali storicamente o culturalmente permeabili dal metodo mafioso o ignorare la mutazione genetica delle associazioni mafiose che tendono a vivere e prosperare anche “sott’acqua”, cioè mimetizzandosi nel momento stesso in cui si infiltrano nei gangli dell’economia produttiva e finanziaria e negli appalti di opere e servizi pubblici”. (Cass. Pen., Sez. II, n. 24851/2017)
Il fenomeno dell’espansione della ‘ndrangheta in diverse zone dell’Italia settentrionale non ha portato solo la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi sulla questione dell’applicabilità della fattispecie di associazione di stampo mafioso alle “mafie delocalizzate” in aree geografiche non tradizionali, ma è stato altresì oggetto dei più recenti studi di carattere sociologico sull’evoluzione delle mafie tradizionali. Infatti la questione delle mafie in movimento è stata sottoposta all’attenzione della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, istituita con legge 19 luglio 2013, n. 87, che ha reso una relazione conclusiva della XVII legislatura approvata dalla Commissione nella seduta del 7 febbraio 2018.
La Commissione ha dedicato costante attenzione alla presenza della criminalità organizzata nelle regioni settentrionali, lungo tutto l’arco della legislatura. Numerose missioni e importanti audizioni, hanno permesso di raccogliere significative conferme e nuove indicazioni sulle dimensioni e l’intensità di un fenomeno che appare in espansione, sul modus operandi delle cosche, sull’infiltrazione nell’economia legale e sulle attività illegali prevalenti.
L’ampia ricognizione svolta nel corso delle missioni in tutte le regioni settentrionali ha confermato la presenza pervasiva dei clan nel tessuto produttivo delle aree più dinamiche e ricche del Paese, che nel “modus operandi” mostrano una notevole flessibilità, riuscendo a trarre vantaggi sia dalle fasi di espansione che da quelle di recessione economica. In particolare desta preoccupazione quanto riferito da diverse Procure della Repubblica sui rapporti di reciproca convenienza che ormai caratterizzano l’infiltrazione della criminalità organizzata nel sistema delle imprese legali.
Le capacità relazionali delle mafie e in particolare il capitale sociale della ‘ndrangheta, quel patrimonio di conoscenze e contatti che si estende su vari livelli ha permesso di acquisire il controllo, diretto o indiretto, di società operanti in vari settori (edilizia, trasporti, giochi e scommesse, raccolta e smaltimento rifiuti), di inserirsi anche nei lavori per la realizzazione di grandi opere e di conquistare posizioni rilevanti nei sistemi di welfare locale.
La presenza di consorterie mafiose si è registrata con modalità ben radicate anche in Veneto, caratterizzato da un tessuto economico ed imprenditoriale molto sviluppato. Sul territorio si registra, infatti, la capillare presenza di piccole e medie imprese, la cui esistenza e prosperità è correlata anche ad importanti snodi di comunicazione, quali il porto di Venezia-Marghera e gli aeroporti internazionali “Venezia-Marco Polo” e “Verona-Valerio Catullo”. La ricchezza diffusa costituisce, pertanto, una potenziale attrattiva per la criminalità mafiosa, principalmente interessata a riciclare e reinvestire capitali illeciti. Sul piano generale resta costante la commissione di reati predatori, non di rado agevolati dalla presenza, nella regione, di “basisti”. In molti casi, infatti, gli autori di rapine a filiali bancarie, oreficerie ed altri obiettivi ritenuti d’interesse attuano un vero e proprio “pendolarismo criminale”, soggiornando sul territorio il tempo utile per realizzare l’azione criminale. Sono innumerevoli le inchieste portate a termine che testimoniano quanto le più potenti cosche di ‘ndrangheta riescano ad organizzarsi e ad operare illecitamente su vasta scala, dando dimostrazione di una eccezionale duttilità sia per i contesti criminali toccati, sia per le trame relazionali che riescono a tessere. Ne è un esempio l’operazione “Malapianta” del maggio 2019, nel cui ambito le famiglie Mannolo e Trapasso agendo “in rapporti di dipendenza funzionale” con i Grande Aracri, hanno dato prova di poter esercitare una particolare pressione estorsiva sulle strutture turistiche di Crotone e Catanzaro, riciclandone i relativi proventi in diversi settori economici. Proprio la potente cosca Grande Aracri di Cutro, ha dato ulteriore dimostrazione della sua capacità di attuare una pervasiva infiltrazione del tessuto economico ormai non solo calabrese ed emiliano, in molteplici settori economico-produttivi: dall’edilizia al movimento terra, dallo smaltimento dei rifiuti alla gestione delle cave, con l’abilità di attrarre a sè imprenditori, professionisti, amministratori pubblici.
Una presenza al Nord emersa sia con le numerose interdittive antimafia emesse da diverse Prefetture del nord Italia – nei confronti del ramo imprenditoriale della cosca Grande Aracri- sia nell’ambito delle operazioni “Terry” e “Camaleonte”. Le indagini, coordinate dalla DDA di Venezia hanno fatto luce sulla pericolosità della cosca cutrese nel Veneto e dato conto di come imprenditori e comuni cittadini si rivolgessero ai criminali per ogni tipo di problematica economica o privata, venendone così assoggettati. La capacità del sodalizio di interloquire con i centri di potere ha trovato conferm, negli esiti dell’operazione “Grimilde”, coordinata dalla DDA di Bologna, che ha visto il coinvolgimento anche di un amministratore pubblico di Piacenza.
L’operazione conferma una tendenza registrata in importanti inchieste degli ultimi anni, che hanno fatto emergere come, in molti casi, siano stati esponenti politici locali o imprenditori a rivolgersi alle consorterie ‘ndranghetiste, proprio per ottenere vantaggi nelle tornate elettorali o per massimizzare i profitti. A conferma di ciò, sono stati adottati 70 provvedimenti interdittivi antimafia nei confronti di ditte calabresi operanti nei più disparati settori commerciali, produttivi e di servizi: dal commercio di veicoli ed automezzi al trasporto di merci su strada, dalla raccolta di materiali inerti alle costruzioni edili, dai servizi di lavanderia, alla vendita di prodotti petroliferi etc. Quanto sopra rende l’idea della pervasività delle cosche fuori dai territori d’origine e offre ulteriori spunti di riflessione in merito ai rapporti sempre più fitti tra le consorterie e personaggi di rilievo del mondo politico ed imprenditoriale. Vale la pena ricordare anche i provvedimenti di scioglimento, nel semestre, di ben 3 Consigli comunali, tutti in provincia di Reggio Calabria: con DPR 11 gennaio 2019 il Consiglio Comunale di Careri, con DPR 3 maggio 2019, il Consiglio Comunale di Palizzi e con DPR 9 maggio 2019 è stato sciolto il Consiglio Comunale di Stilo. In taluni casi, le evidenze investigative poste a base dei citati provvedimenti di scioglimento hanno testimoniato le forti compromissioni tra le strutture amministrative e le locali consorterie ‘ndranghetiste. Tuttavia, tra gli eventi di maggior allarme sociale e clamore mediatico rientra senz’altro lo scioglimento, l’11 marzo 2019, dell’organo di direzione generale dell’Azienda sanitaria Provinciale di Reggio Calabria ex art. 143 del D. Lgs. 267/2000. Tale provvedimento trova le sue radici in “…concreti, univoci e rilevanti elementi su forme di condizionamento ed ingerenza della criminalità organizzata di tipo mafioso nei confronti dell’azienda…”.
Alcune fra le più importanti inchieste degli ultimi anni hanno consentito di disegnare, per quanto possibile, un “organigramma criminale” della ‘ndrangheta fuori dai territori di origine, quanto più aderente alle evidenze giudiziarie. La mappa rappresentativa dei locali di ‘ndrangheta “censiti” nel Nord Italia dalle indagini degli ultimi anni, è emblematica della forza espansionistica delle cosche e della loro capacità di riprodursi secondo lo schema tipico delle strutture calabresi. In totale sono emersi 43 locali, di cui 25 in Lombardia, 13 in Piemonte, 4 in Liguria e 1 in Valle d’Aosta. E proprio in virtù delle rinnovate connotazioni della ‘ndrangheta e della citata evoluzione del modus operandi della stessa che si sono apprestate misure ed azioni di contrasto fondate sulla cooperazione giudiziaria internazionale.
Un valido esempio è costituito dal progetto “I-Can”, acronimo di Interpol Coorporation Against ‘Ndrangheta, definito “un attacco globale alla ‘ndrangheta” finanziato dal Ministero dell’Interno, e presentato a Reggio Calabria dal segretario generale dell’Interpol jurgen Stock e dal prefetto Vittorio Rizzi, vicedirettore generale della Pubblica Sicurezza a fine gennaio 2020. Il progetto è stato partorito nell’ottobre scorso, durante l’assemblea generale dell’Interpol a Santiago del Cile, per la prima fase del progetto l’Italia ha proposto di partecipare ad I-Can a dieci Paesi europei ed extraeuropei. In sostanza, l’obiettivo è “una conoscenza approfondita del fenomeno criminale e delle sue conseguenze a livello di sicurezza e di pregiudizio alle libertà dei cittadini”. Come evidenziato in precedenza il primo problema della lotta alla ‘ndrangheta è legato alle differenti legislazioni dei vari Paesi in cui opera. I clan sono spesso un passo avanti rispetto alle istituzioni: nel caso della mafia calabrese, negli ultimi anni si è registrato un massiccio radicamento negli Stati dove la pressione investigativa e le misure giudiziarie non costituiscono un argine agli affari dei boss.
La seconda direttrice del progetto I-Can punta alla cattura dei latitanti e all’aggressione ai patrimoni illeciti, attraverso gli strumenti della cooperazione multilaterale di polizia offerta da Interpol. A questo proposito diventano fondamentali le banche dati delle forze di polizia interconnesse ed interoperabili. In Italia, inoltre, ci sarà uno studio dei cosiddetti “dati freddi”, relativi ad indagini già chiuse.
È previsto, infatti, per lo sviluppo di un software di analisi predittiva e di business intelligence che consenta di riconoscere in tempo i segni premonitori e anticipare i rischi legati alla minaccia della ‘ndrangheta. Questo consentirebbe alle forze di polizia di arrivare prima e non quando un territorio è già infiltrato dalle cosche attraverso una colonizzazione che replica all’estero il modulo strutturale della ‘ndrina. A differenza di Cosa nostra siciliana, infatti, le famiglie mafiose calabresi hanno sempre preferito un’infiltrazione silente nel tessuto economico sociale e imprenditoriale, che destabilizza l’economia e altera la libera concorrenza dei mercati legali, andando allo stesso tempo ad inquinare il settore pubblico ed istituzionale.
Questo è stato possibile perché la ‘ndrangheta gode di un enorme potere finanziario costruito principalmente sul traffico di droga, da un immenso potere corruttivo e dalla costante distrazione di fondi pubblici operata attraverso le truffe e gli appalti truccati. I-Can è stato voluto dall’Interpol per contrastare la minaccia ‘ndranghetista.
La ‘ndrangheta viene immaginata come un fenomeno locale. Purtroppo le indagini hanno dimostrato che è uno dei principali broker internazionali, si è diffusa nel mondo in maniera non violenta ma silente, portando capitali all’estero. Oggi si documenta in cinque paesi la presenza di locali di ‘ndrangheta. Per estendere all’estero la lotta ai clan, secondo il vicedirettore generale della Pubblica Sicurezza “serve lo sviluppo della consapevolezza che deve essere tradotta in operazioni di polizia, arresti di latitanti, sequestro di capitali. Appunto un attacco globale senza frontiere alla ‘ndrangheta. La sala operativa scambia 400 informazioni al giorno: è il cuore pulsante del sistema informativo. Con il supporto richiesto alla Dna e alle due Procure distrettuali calabresi. E’ prevista una rete di esperti nel mondo per intervenire in 62 Paesi senza particolari formalità.” Inoltre il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha ricordato come, “in passato, c’era una mancata percezione del fenomeno mafioso vista più come un’opportunità che come un pericolo.
La ‘ndrangheta oggi ha delocalizzato le attività criminali. In questi Paesi non solo custodisce i latitanti ma investe il denaro proveniente dalle attività illecite. L’Italia ha la grande ricchezza di banche dati formidabili. Oggi collaborare a livello mondiale è una grande opportunità. A una ‘ndrangheta globale bisogna rispondere con una lotta globale”. È comunque molto probabile che, in un futuro magari non così immediato, il legislatore sarà costretto ad intervenire sul terzo comma dell’art. 416-bis c.p.: la futura evoluzione delle mafie, sempre più convertite alla logica del mercato e sempre meno disposte ad usare la violenza sul territorio, potrebbe rendere il delitto di associazione mafiosa non più idoneo a contrastarle. Per evitare l’obsolescenza dell’istituto, è allora necessario un aggiornamento del sapere criminologico e degli stessi strumenti repressivi.
Avv. Silvia Sticca
Assistente Giuridico presso il Consiglio Superiore della Magistratura
( L’articolo: “La mafia silente”, pubblicato sulla Rivista: “La 7° Colonna” – https://8f5b6255-5569-42f6-ac25-86d66c063fbf.filesusr.com/ugd/99d237_98f83eaa26444742ba7b14eff8f5ec8e.pdf )
Breve nota Biografica dell’ Autore:
Giurista Specializzata in Diritto societario, diritto internazionale umanitario, criminalità organizzata
transnazionale.
Attualmente Assistente di Studio presso il Consiglio Superiore della Magistratura.
Consulente della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre
associazioni criminali, anche straniere XVIII Legislatura.
Avvocato iscritto all’ordine degli Avvocati di Campobasso (dal 2015 al 2019) si è occupata di studio e
contenzioso di diritto societario, diritto bancario e diritto fallimentare in studi legali siti in Roma. Già
Cultore della Materia di Legislazione Sanitaria presso il Dipartimento di Medicina e Scienze della Salute
presso l’Università degli Studi del Molise (dal 2012 ad oggi).
Ha conseguito nel 2017 il Master di II livello in Economia dello Sviluppo e Cooperazione Internazionale
presso la Link Campus University, patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, con Tesi: “Fenomeno
migratorio e attività di contrasto alla tratta degli esseri umani”.
Ha conseguito il corso di Specializzazione in “Convenzione Europea sui Diritti Umani” presso l’Unione
Forense per la Tutela dei diritti umani. Partecipa nel 2019 al “Tralim 2 Seminar Training of Lawyers on
European Law Relating To Asylum And Immigration “- European Lawyers Foundation – Consiglio
Nazionale Forense- Project is co- financed with support of the Justice programme of the European
Union.
Partecipa alla stesura degli aggiornamenti dell’ENCICLOPEDIA DELLE MAFIE edita dall’ARMANDO
CURCIO EDITORE con le seguenti voci – “Il Favoreggiamento Personale” (2017); – “La Mafia Silente”
congiuntamente al Dott. Luigi Cuomo Sostituto Procuratore Generale presso la Corte Suprema di
Cassazione (2018); – “La Mafia Silente- l’aggravante del metodo mafioso” – Mafia Capitale (2019); –
“L’evoluzione della ‘ndrangheta in Italia e all’Estero e i meccanismi di cooperazione internazionale”
(2020).
Partecipa alla stesura dell’Aggiornamento del GRANDE DIZIONARIO ENCICLOPEDICO SUL
TERRORISMO INTERNAZIONALE, con appendice di quello nazionale edito dall’ARMANDO CURCIO
EDITORE con le voci: – “Il Terrorismo Internazionale – Analisi geopolitica delle aree interessate alle
proiezioni dell’Isis (Medio Oriente; Nord Africa; Africa Sub-sahariana e Corno d’Africa; Asia)” (2018) – “Il
Terrorismo Internazionale – Aggiornamento della situazione in Siria: Finanziamento al terrorismo e
criminalità organizzata” (2019).
Relatrice al convegno “Il contrasto al crimine organizzato. I nuovi scenari investigativi”
AGGIORNAMENTI DELL’ENCICLOPEDIA DELLE MAFIE – presso L’UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL
MOLISE, relazione dal tema “LA MAFIA SILENTE” – l’espansione della criminalità organizzata in aree
non tradizionali – la criminalità economica. (2017)
Partecipa a diversi corsi di formazione ed aggiornamento professionale tra cui presso la Scuola Notarile
Anselmo Anselmi- Roma; Lexfor; Istituto A. C. Jemolo; Associazione Giustizia e Sanità; Avvocatura dello
Stato.
Partecipa al seminario “STUDI STRATEGICI, GEOPOLITICI E MILITARI” in collaborazione con la
Società italiana di Storia militare (Sism), la rivista scientifica “Limes” e la rivista Politica.eu; ai Seminari di
studio e di preparazione alla carriera internazionale e comunitaria presso AESI Associazione Europea di
Studi Internazionali, Roma.
Partecipa a convegni, seminari, in tema di criminalità organizzata anche straniera e di aggressione al
patrimonio delle mafie.
Membro del Comitato Scientifico della Rivista “La 7 Colonna” rivista scientifico – divulgativa.
Dedita al sociale e all’attività di servizio per la collettività Membro del Rotary International- District 2090
Abruzzo Marche Molise Umbria; Socia della Fidapa Sezione Roma – Federazione Donne Arti
professioni e Affari- Federazione Internazionale IFBPW (International Federation of Business and
Professional Women); Socia dell’Associazione Women in International Security – WIIS Italy- Sezione
Roma – network globale dedicato a promuovere la leadership e lo sviluppo professionale delle donne nel
campo della pace e della sicurezza internazionali.
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