
Avv. Silvia Sticca
Crimini Ambientali. Un Business mondiale da 259 miliardi di dollari l’anno
Il termine ecomafia, nella lingua italiana, è un neologismo coniato dall’associazione ambientalista Legambiente per indicare le attività illegali delle organizzazioni criminali di tipo mafioso che arrecano danni all’ambiente.
In particolare sono generalmente definite ecomafie le associazioni criminali dedite al traffico e allo smaltimento illegale dei rifiuti, traffico di animali e specie protette, opere d’arte e agroalimentare.
Il collegamento tra devastazione ambientale e crescita del profitto mafioso si evince dal giro d’affari prodotto: secondoi dati riportati nel Rapporto “Ecomafia 2019. Le storie e i numeri della criminalità ambientale in Italia”, realizzato da Legambiente, l’aggressione alle risorse ambientali del Paese si traduce in un giro d’affari che nel 2018 ha fruttato all’ecomafia ben 16,6 miliardi di euro, 2,5 in più rispetto all’anno precedente e che vede tra i protagonisti ben 368 clan, censiti da Legambiente e attivi in tutta Italia.
In particolare 3,2 miliardi per commercio illegale di animali e piante protette, 2,8 miliardi nell’ambito dei rifiuti speciali, 2,3 miliardi derivanti da operazioni di abuso edilizio, 1,4 miliardi dal comparto agroalimentare e 1,1 miliardi di euro per l’inquinamento ambientale. In misura minore ma pur sempre rilevante ci sono l’archeomafia cioè i furti di opere d’arte (600 milioni di euro di indotto) e la corruzione ambientale (500 milioni di euro).
La Campania è la regione che guida la classifica dell’illegalità nel ciclo dei rifiuti: su un totale pari al 47% delle infrazioni a livello nazionale, rilevate dalle Forze di Polizia nelle quattro regioni a rischio, si trova al primo posto, con 1.589 infrazioni su 3.756, seguita dalla Calabria (3.240) – che registra comunque il numero più alto di arresti, 35 – la Puglia (2.854) e la Sicilia (2.641). La Toscana è, dopo il Lazio che ha registrato poco più di 2.000 reati, la seconda regione del Centro Italia per numero di reati (1.836), seguita dalla Lombardia, al settimo posto nazionale.
La corruzione resta lo strumento principe, il più efficace, per aggirare le regole concepite per tutelare l’ambiente e maturare profitti illeciti. Dal 1° giugno 2018 al 31 maggio 2019 sono ben 100 le inchieste censite da Legambiente e che hanno visto impegnate 36 procure, capaci di denunciare 597 persone e arrestarne 395, eseguendo 143 sequestri.
Se nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso se ne sono contate 43, che fanno il 43% sul totale, è il Lazio la regione con il numero più alto di inchieste, 23, seguita da Sicilia (21), Lombardia (12), Campania (9) e Calabria (8).
Sempre nel 2018 sono inoltre 23 le Amministrazioni comunali sciolte per mafia, mentre nei primi cinque mesi del 2019 sono state ben 8: Careri (Reggio Calabria; sciolto una prima volta nel 2012), Pachino (Siracusa), San Cataldo (Caltanissetta), Mistretta (Messina), Palizzi (Reggio Calabria), Stilo (Reggio Calabria), Arzano (Napoli; al terzo scioglimento, dopo quelli del 2008 e del 2015) e dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria.
La Legge n. 68/2015 sugli ecoreati continua ad avere un ruolo chiave, sia sul fronte repressivo sia su quello della prevenzione. Nel 2018 la legge è stata applicata dalle forze dell’ordine per 1.108 volte, più di tre al giorno, con una crescita pari a +129%. Come gli altri anni, la fattispecie dell’inquinamento ambientaleè quella più applicata: 218contestazioni, con una crescita del 55,7% rispetto all’anno precedente. Aumentano anche i casi di disastro ambientaleapplicato in 88casi (più che triplicati rispetto all’anno precedente). Completano il quadro le 86contestazioni per il delitto di traffico organizzato di rifiuti, i 15casi di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, i 6delitti colposi contro l’ambiente, i 6di impedimento al controlloe i 2di omessa bonifica.
Più volte l’Italia è stata oggetto di procedure di infrazione in campo ambientale e della conseguente applicazione di sanzioni da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per la sistematica violazione delle norme europee in tema di impatto ambientale, inquinamento atmosferico, conservazione della natura. Molti rilievi hanno riguardato la gestione dei rifiuti proprio in Campania e sono alla base delle motivazioni di una sentenza di condanna della Corte di giustizia (luglio 2015), che, avendo constatato la scorretta esecuzione di una precedente sentenza del 2010, ha imposto all’Italia il pagamento di una penalità di centoventimila euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione della sentenza del 2010, più una somma forfettaria di venti milioni di euro per le persistenti carenze rilevate nella gestione del ciclo dei rifiuti. Tale carenza, rileva la Corte, portata alla sua attenzione in più di venti cause, legittima l’adozione di una misura dissuasiva, come la condanna al pagamento di una cifra forfettaria.
Il 4 marzo 2010, la Corte di Giustizia aveva constatato che l’Italia non aveva adottato, per la regione Campania, tutte le misure necessarie per assicurare che i rifiuti fossero recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza recare pregiudizio all’ambiente: in particolare, non era stata creata una rete adeguata ed integrata di impianti di smaltimento, violando gli obblighi previsti dalla Direttiva europea N. 2006/12/CE del 5 aprile 2006.
Nei reati connessi allo smaltimento illecito dei rifiuti spesso si intrecciano condotte illecite poste in essere da parte di tutti i soggetti che intervengono nel ciclo di smaltimento, non solo gruppi criminali ma anche imprenditori ed amministratori senza scrupoli, autotrasportatori, consulenti chimici, tutti partecipi di un meccanismo ben rodato. Per gli imprenditori liberarsi illegalmente dei rifiuti rappresenta una modalità di abbattimento dei costi di produzione, con la conseguente acquisizione di posizioni di vantaggio rispetto ad analoghe imprese che affrontano, con trasparenza ed onestà, tutti gli oneri previsti dai precetti normativi.
Già nei primi anni ’90, nell’analizzare, per la prima volta a livello giudiziario, il cd. ciclo illegale dei rifiuti, venne alla luce che il rapporto tra la camorra e il mondo imprenditoriale non era più fondato sull’estorsione e il ricatto della prima sul secondo, ma si caratterizzava come relazione di tipo “simbiotico”, dalla quale entrambe le parti traevano un proprio tornaconto. Lo stesso pagamento della “tangente” ad esponenti criminali iniziò ad essere letto da un’altra angolatura, che lo configurava, invece, quale contributo al clan, correlato ad un aumento del volume di affari, conseguente al risparmio di spesa. Accanto a figure di imprenditori che mirano a risparmiare i costi di eco-compatibilità, si è delineata un’altra categoria di industriali che hanno fatto dello sfruttamento illecito dell’ambiente il proprio oggetto sociale. Così è accaduto che imprenditori senza scrupoli abbiano messo a disposizione dei clan le proprie discariche, i terreni, i mezzi produttivi, la documentazione fiscale, divenendo organici al gruppo criminale. In parallelo, la stessa logica del profitto che muove talune fasce imprenditoriali senza scrupoli riguarda anche i clan camorristici, per i quali i reati ambientali rappresentano, da oltre tre decenni, una delle attività illecite più remunerative. La loro rilevanza nelle economie criminali si ritrova nelle parole di un collaboratore di giustizia che, nel corso dell’operazione “Adelphi” del 1991, dichiarò che la “monnezza” diventava “oro”, rappresentando un affare più redditizio del traffico di stupefacenti. Le naturali premesse per l’infiltrazione di tale mercato da parte della camorra sono state il tradizionale controllo del territorio, la disponibilità di cave, terreni e manodopera a bassissimo costo, unitamente al collaudato know how criminale, fondato sui meccanismi della protezione interessata e della violenza dissuasiva.
Inizialmente, l’interesse delle consorterie criminali si è incentrato nella gestione diretta delle discariche illegali realizzate in cave od in terreni, per passare poi ad infiltrare le compagini delle ditte titolari delle discariche autorizzate. Da allora, i gruppi criminali hanno esteso le attività dal semplice controllo dei siti finali di smaltimento al loro trasporto e commercializzazione. La gestione si è ramificata su gran parte del territorio nazionale, secondo gli schemi propri della moderna mafia imprenditrice. Si sono anche evolute le tecniche di “smaltimento”, accomunate dall’obiettivo di far perdere le tracce del rifiuto prodotto a cominciare dalla sua provenienza.
Nel tempo si è passati dallo sversamento in discariche a cielo aperto, tipiche del periodo compreso tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ‘90, ad un’ampia gamma di metodologie pericolose per la salute pubblica, che ha riguardato tutte le fasi del ciclo.
Si legge nella relazione della “Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti” del febbraio 2013, che: “…la capacità di infiltrazione della camorra nel settore dei rifiuti si è sviluppata in una sorta di progressione criminosa nel senso che, da una attività meramente predatoria (…) si è passati ad una infiltrazione nella stessa gestione imprenditoriale nel settore dei rifiuti, creando rapporti di complicità e connivenza con imprenditori del settore. L’ulteriore passo è stato quello della «occupazione» non solo del territorio campano, ma anche di quei settori della politica aventi un ruolo decisionale nella gestione del ciclo dei rifiuti…”.
Nel corso della sua audizione del 30 gennaio 2019, dinanzi alla “Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati”, il Presidente dell’ANAC, riferendosi alla gestione dei rifiuti in Campania ha evidenziato che una delle anomalie più ricorrenti riguarda proprio l’esecuzione di servizi di igiene urbana sulla base di contratti d’appalto scaduti da anni, prorogati in forza di reiterate ordinanze sindacali o determine dirigenziali, senza ricorrere a procedure selettive di evidenza pubblica e di scelta del contraente secondo criteri competitivi e di economicità. Tale modus operandi avrebbe concorso a creare “…una sorta di “zona franca”, in cui si radicano vere e proprie spartizioni di mercato e posizioni di privilegio per i soggetti gestori, fino ad assumere progressivamente la consistenza di condizioni quasi immutabili e sicuramente difficili da scardinare…” Diverse indagini hanno, tuttavia, fatto emergere che in determinate realtà l’esponente politico si trova in una posizione di subalternità solo apparente in quanto, da un esame più attento del rapporto instauratosi tra il primo e il gruppo criminale, emerge che questo si fonda sull’esistenza di reciproci interessi e si sviluppa su un piano di perfetta pariteticità. Infatti, il peculiare rapporto che, da decenni, lega la camorra a compagini istituzionali, le ha consentito di inserirsi nelle gare per la concessione di pubblici appalti, in posizione spesso favorita rispetto alle imprese legali, sia per le considerevoli ricchezze di mezzi di cui la stessa dispone sia per gli appoggi politico-amministrativi sui quali può contare. Tale relazione arriva in alcuni casi ad assumere le connotazioni di una vera e propria joint venture, nella quale le scelte gestionali sono attuate a discapito dell’ottimizzazione delle modalità di smaltimento.
Il connubio tra economia lecita ed interessi mafiosi si rileva nella costituzione di Associazioni Temporanee di Imprese (A.T.I.), con capigruppo di importanti dimensioni per struttura e capitale, quindi in grado di aggiudicarsi gli appalti, alle quali sono chiamate a partecipare piccole imprese del luogo, solitamente vicine alla compagine mafiosa locale. Il 17 febbraio 2015, un provvedimento cautelare del GIP presso il Tribunale di Napoli ha documentato l’affidamento, tra il 2004 ed il 2007, da parte di due ex amministratori comunali (uno di Gricignano d’Aversa, l’altro di Orta di Atella), della gestione di molteplici servizi pubblici, tra i quali la raccolta e il trasporto pubblico di rifiuti, a una società riconducibile ad una famiglia di imprenditori contigui ai CASALESI, in cambio di voti e di assunzioni agevolate.
Il 20 gennaio 2017, il Tribunale Misure di Prevenzione di Napoli ha disposto un sequestro preventivo di beni riconducibili a tre fratelli imprenditori nel settore dello smaltimento dei rifiuti, legati al citato gruppo, del valore di circa 200 milioni di euro. Il provvedimento ablativo rappresenta l’esito dell’operazione “Carosello-Ultimo Atto”, conclusasi con la condanna definitiva dei citati imprenditori per disastro ambientale, per aver smaltito illegalmente tonnellate di rifiuti pericolosi e non pericolosi, spesso provenienti dalle industrie del Nord Italia, direttamente nelle campagne e nei Regi lagni dell’agro casertano e napoletano.
Sul fronte imprenditoriale, la ‘ndrangheta, come noto, riesce ad alterare le condizioni di libero mercato con il monopolio di interi settori, da quello edilizio, funzionale all’accaparramento di importanti appalti pubblici, a quello immobiliare o delle concessioni dei giochi e, non ultimo, quello dei rifiuti.
Recenti attività condotte dalla DIA e dalle Forze di polizia che hanno documentato in diverse occasioni il totale asservimento di amministratori pubblici alle consorterie criminali con il conseguente condizionamento delle gare d’appalto nello specifico settore. Ciò garantisce ai sodalizi il sostanziale controllo delle lucrose attività connesse. È stato anche rilevato il sostanziale controllo di società a partecipazione pubblica, appositamente realizzate per la gestione dei rifiuti e sistematicamente condotte al fallimento (come emerso nell’ambito dell’inchiesta “Trash”), mentre in altri casi è stata accertata l’imposizione di una “tassa ambientale”, a titolo estorsivo.
A partire dal luglio 2014, a Reggio Calabria, Venezia ed Assisi, nell’ambito dell’operazione “Rifiuti Spa 2”, i Carabinieri hanno eseguito una misura restrittiva nei confronti di 24 soggetti appartenenti alla cosca Alampi, federata con quella dei Libri, attiva nella frazione cittadina di Trunca (RC), accusati, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, turbata libertà degli incanti, intestazione fittizia di beni e sottrazione di cose sottoposte a sequestro, con l’aggravante delle finalità mafiose. Le indagini hanno documentato le infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti per la gestione dei rifiuti, nel cui ambito sono emersi accordi tra cosche per la spartizione dei profitti derivanti dalla gestione fraudolenta delle discariche regionali, nonché il controllo da parte degli indagati di imprese già sequestrate alla cosca con la complicità di un amministratore giudiziario, anch’egli destinatario di provvedimento restrittivo.
L’impegno investigativo nelle citate operazioni, ha consentito, tra l’altro, di acquisire elementi probatori sul conto di imprenditori attivi nel settore della raccolta rifiuti che, forti del sostegno derivante dalla criminalità organizzata locale e avvalendosi della collaborazione di liberi professionisti e della compiacenza di funzionari e amministratori pubblici, hanno condizionato il regolare svolgimento di gare d’appalto in alcuni comuni del basso Jonio reggino, in una sorta di rapporto circolare tra Pubblica Amministrazione, imprenditoria e cosca mafiosa: la prima, in cambio di appoggio, concedeva favori; la seconda cresceva grazie all’influenza mafiosa e degli amministratori pubblici corrotti, mentre la terza rafforzava il suo radicamento nel tessuto politico ed economico.
Se fino a ieri, poi, l’attenzione mediatica è stata concentrata quasi unicamente verso le regioni del Sud, soprattutto a causa delle travagliate vicende campane, oggi l’asse cognitivo dell’opinione pubblica non può più essere distolto da quanto, da tempo, accade al Centro e nel Nord del Paese: in talune aree, ormai non più considerabili come isole felici – ove si assiste ad una ancora troppo lenta comprensione del fenomeno mafioso – i gruppi criminali trovano terreno fertile per la realizzazione di ecoreati, con le pesanti ricadute, in termini di costo sociale, che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi decenni. Le vicende connesse ai gravi episodi incendiari, che – ad esempio, in Lombardia – hanno riguardato capannoni ed aree colme di rifiuti, ne sono una testimonianza da non sottovalutare. L’analisi delle attività di indagine concluse in tale ambito illecito è da mettere necessariamente in relazione con la situazione gestionale del ciclo dei rifiuti e le sue criticità: la filiera legale (disciplinata dal D. Lgs. 152/2006 – Codice dell’Ambiente) appare troppo lunga negli aspetti spazio-temporali e costringe il rifiuto, dalla produzione allo smaltimento, ad una forte mobilità sul territorio, non solo verso altre regioni – secondo direttrici che oramai non sono più univoche – ma anche verso l’estero. La perdurante emergenza, che in alcune aree del Paese condiziona ed ostacola una corretta ed efficace gestione del ciclo dei rifiuti, vede tra le sue cause certamente l’assenza di un’idonea impiantistica, primi fra tutti i termovalorizzatori, che a livello regionale, o addirittura provinciale, avrebbe potuto consentire l’autosufficienza e la prossimità, come sancito dall’art 182 bis del D. Lgs. 152/2006. Significativa, si è già detto, la mancata realizza
zione di impianti di smaltimento ad alto profilo tecnologico, sul modello di quelli già esistenti in molti altri Stati europei e soprattutto nelle stesse Capitali e, nel contempo, il mancato potenziamento delle ulteriori infrastrutture necessarie, a monte, per il riciclo di materia e la stabilizzazione della trattazione organica. Una situazione che ha inevitabilmente determinato l’allungamento della filiera ed il mancato compimento del ciclo di gestione, demandando lo smaltimento di quasi tutti i rifiuti urbani al conferimento in discarica, che spesso avviene dopo un farraginoso e dispendioso iter di trattamento e trasporto. In tale contesto, più è lunga la filiera, più le organizzazioni criminali riescono a trovare spazi di inserimento, sfruttando le situazioni emergenziali e contribuendo, con lo sversamento illegale nelle discariche abusive, all’inquinamento del patrimonio ambientale.
Segnali di interesse della criminalità organizzata presente in Lombardia per lo smaltimento dei rifiuti anche collegato all’emergenza COVID-19”. A sostenerlo è stato il Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano, Alessandra Dolci, nell’audizione voluta dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati (Commissione Ecomafie). Con lei i rappresentanti di Cisambiente Confindustria che hanno riferito in merito alla gestione dei rifiuti collegata all’emergenza COVID-19.
La lotta alla criminalità organizzata, in particolare sul tema dei rifiuti, in tempi di Covid-19 non si ferma. Il procuratore Dolci, responsabile della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Milano, ha precisato che le mafie hanno cercato di inserirsi nel business dovuto all’emergenza sanitaria, in particolare rilevando attraverso prestanome società già in possesso di una autorizzazione alla gestione dei rifiuti o che si propongono per le sanificazioni speciali degli ambienti. “In generale, è stato rilevato l’interesse della criminalità organizzata a sfruttare l’occasione offerta dalla pandemia. Non posso non riferirmi anche al decreto Liquidità che offre l’opportunità di incamerare illecitamente dei finanziamenti. Abbiamo sul territorio una serie di attività investigative in essere che danno conto dell’interesse delle organizzazioni criminali presenti sul territorio, nello specifico la ‘ndrangheta, nel settore del traffico dei rifiuti, anche di rifiuti Covid. Abbiamo colto una progettualità in divenire e ovviamente siamo presenti con attività investigative”. Si precisa, poi, che la Regione Lombardia, ha emesso due ordinanze sullo smaltimento rifiuti (1 aprile e il 29 maggio) durante l’emergenza Covid. “Ci ha colpito perché prevede, ad esempio, un’autorizzazione in deroga allo stoccaggio di un quantitativo di rifiuti superiore del 20 per cento rispetto all’autorizzazione che viene rilasciata alle società”. Questo non fa che aumentare la capacità ricettizia, senza però che vi sia un contestuale aumento della fideiussione, quindi senza un vincolo. “L’emergenza rifiuti, a mio giudizio, non giustifica un aumento della capacità ricettizia, in Lombardia le società regolarmente registrate sono circa 3.500 e gran parte sono in regime semplificato. In virtù dell’ordinanza del primo aprile per l’aumento di capacità del 20 per cento per il deposito di ogni tipo di rifiuto sia sufficiente una dichiarazione alla Città metropolitana, Arpa e Prefettura, e ciò non si giustifica con l’emergenza”.
Il procuratore Dolci ha inoltre fornito alcune informazioni sugli incendi di rifiuti che, ha spiegato, è stato un fenomeno in Lombardia osservato soprattutto negli anni 2017 e 2018, per un totale di circa 50 casi. Non tutti di origine dolosa, ma si torna alle criticità già messe in evidenza dalla sopracitata relazione della Direzione investigativa antimafia. Esplorando “gli aspetti criminogeni della complessa filiera dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi, compresi i recenti casi che hanno visto, a macchia di leopardo sul territorio nazionale, numerosi incendi presso aree periferiche e capannoni”, la Dia è arrivata a evidenziare che «la perdurante emergenza che in alcune aree del Paese condiziona ed ostacola una corretta ed efficace gestione del ciclo dei rifiuti vede tra le sue cause certamente l’assenza di idonei impianti di smaltimento che dovrebbe consentire l’autosufficienza a livello regionale». In altre parole, senza impianti di prossimità sufficienti a gestire in sicurezza i rifiuti prodotti da imprese e cittadini, è più probabile che sia la malavita a occuparsi di risolvere il problema.
Tornando agli incendi in Lombardia, il Procuratore Dolci ha ricordato che i più significativi sono stati quelli di via Chiasserini a Milano e quello di Corteolona, in provincia di Pavia e dalle attività di indagine “è emersa la presenza nel settore dello smaltimento illecito di rifiuti in Lombardia di soggetti calabresi contigui alla ‘ndrangheta”. Il modus operandi emerso dagli approfondimenti investigativi prevedeva, secondo quanto riferito, lo “smaltimento illecito in Calabria di rifiuti campani, solo formalmente inviati a smaltimento in Lombardia”. Dolci ha inoltre sottolineato l’efficacia delle attività di prevenzione di incendi e stoccaggi illeciti di rifiuti coordinate dalla prefettura di Milano e da altre Prefetture lombarde. Sempre in un’ottica di condivisione delle informazioni, il procuratore si è detta favorevole rispetto a un’ipotesi di banca dati che raccolga provvedimenti autorizzativi, struttura societaria e risultanze dei controlli relativi ad aziende del settore rifiuti. In ragione del know-how investigativo maturato nel tempo, le metodologie di contrasto sviluppate dalle Forze di polizia e dalla Magistratura coincidono – in presenza di un elevato tecnicismo normativo di settore – con quelle applicate in tema di lotta alla criminalità organizzata e necessitano, ugualmente, anche della cooperazione internazionale, nella consapevolezza che, per contrastare efficacemente le proiezioni criminali ed economico-finanziarie delle mafie, occorre comprendere anzitutto l’importanza del crimine transnazionale, da qualsiasi Paese provenga, inteso come una vera e propria assoluta priorità.
A livello internazionale UNEP (UN Environment Programme) ed INTERPOL confermano nell’ultimo report del 2018 le già impressionanti cifre pubblicate nel 2016.
In entrambi i documenti si stima che i crimini ambientali abbiano alimentato un business tra i 91 e i 259 miliardi di dollari l’anno, un profitto che li ha resi in media il quarto crimine più redditizio al mondo, dopo il traffico di droga (344 miliardi di dollari), la contraffazione (288 miliardi di dollari) e il traffico di esseri umani (157 miliardi di dollari). L’aumento esponenziale delle attività ambientali illecite contrasta con un’analoga perdita di risorse per i governi e le comunità, da 9 a 26 miliardi di dollari all’anno a seconda del Paese di riferimento.
I crimini ambientali hanno recentemente attirato l’attenzione della comunità internazionale a causa dei danni compiuti contro l’ambiente e gli ecosistemi, nonché per le drastiche ripercussioni per la pace, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile. II rapporto UNEP del 2018 mette in guardia dagli effetti drammatici che queste attività illecite hanno, da un lato, sull’esacerbazione dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale e, dall’altro, sull’inasprimento di conflitti interni e tra nazioni.
Al fine di arginare almeno parzialmente tale incertezza normativa, organizzazioni come INTERPOL, EUROPOL e UNEP hanno concordato che il termine “crimine ambientale” possa essere utilizzato per identificare “quelle attività illegali che danneggiano l’ambiente e da cui traggono beneficio individui o gruppi o società tramite lo sfruttamento, il danneggiamento, il commercio o il furto di risorse naturali, compresi, ma non limitati a, reati gravi e crimini organizzati transnazionali”.
Hanno incluso nella lista di emblematici crimini ambientali internazionali i traffici di specie rare e protette (flora e fauna), i crimini forestali e della pesca, la gestione criminosa delle acque, lo scarico illegale di rifiuti, il contrabbando di sostanze che riducono lo strato di ozono e l’estrazione illegale.
II rapporto UNEP-INTERPOL del 2016 svela che i criminali scelgono in quale Paese condurre il proprio business anche in base alle carenze nelle legislazioni penali nazionali e al livello di corruzione, al fine di ottenere il massimo profitto possibile. Un altro ostacolo è la mancata attuazione di strumenti giuridicamente e non giuridicamente vincolanti per affrontare questi reati.
Dalle analisi condotte dalle organizzazioni internazionali si evince che il traffico di fauna selvatica e di rare specie animali è particolarmente diffuso in Africa, Asia e America Latina; mentre Nord America, Europa e Asia sono i principali clienti di tale mercato, pari al 25% del commercio internazionale totale.
Inoltre, le destinazioni privilegiate per il trasporto e il traffico illegale di rifiuti sono il continente africano (principalmente Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Tanzania) e asiatico (Cina, Indonesia, India, Malesia, Pakistan e Vietnam). La percentuale più alta di questi rifiuti proviene da Europa, Nord America e Australia.
Dal 2016, la Colombia presenta il maggior numero di sfollati nel mondo, di cui l’87% è stato costretto a fuggire da aree con una forte presenza di attività estrattive illegali che ha comportato un grave inquinamento da mercurio dell’acqua e del suolo. Insieme all’America Latina, anche l’Africa e l’Asia sono gravemente colpite dall’estrazione illegale di risorse naturali, specialmente di oro, coltan e diamanti.
Pertanto, ciò che emerge dall’analisi dei dati UNEP e INTERPOL è che l’Europa e il Nord America, insieme ad altri Stati a seconda del settore commerciale, sfruttano le risorse dei Paesi meno sviluppati, scambiando rifiuti tossici per minerali e fauna.
I report esaminati evidenziano poi tre principali fattori che favoriscono la proliferazione dei reati ambientali che riguardano, rispettivamente, il beneficio economico per i responsabili, la domanda sempre crescente di attività ambientali illecite e il fallimento istituzionale nel regolare e combattere efficacemente tali crimini. La povertà rappresenta un incentivo a commettere tali atti, spesso considerata come l’unica via di sopravvivenza. Un esempio emblematico riguarda il caso del “turismo dei rifiuti” o del cosiddetto “eWaste”: cittadini africani che arrivano in Europa con un visto turistico per raccogliere rifiuti elettronici (telefoni cellulari, componenti di computer o altra apparecchiatura elettronica) per poi farli circolare illegalmente in Africa con gravi conseguenze per la salute umana e l’ambiente.
I crimini ambientali possono essere condotti da individui – come appena riscontrato – società, attori statali o gruppi di criminalità organizzata. Un esempio pragmatico di responsabilità statale per crimini ambientali è il noto caso dell’acciaieria Ilva di Taranto, per cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’Articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’uomo).
Particolarmente preoccupante è, inoltre, il crescente coinvolgimento della criminalità organizzata in attività illecite. II termine “crimini ambientali da colletti bianchi” è stato coniato per evidenziare il fitto collegamento tra crimini ambientali e riciclaggio di denaro, la frode, l’evasione e la corruzione fiscale. Alcuni dei gruppi di criminalità organizzata transnazionale più pericolosi al mondo – la camorra e la ndrangheta in Italia, Solntsevskaya Bratva nella Federazione Russa, Yamaguchi Gumi in Giappone e Sinaloa in Messico – hanno investito massivamente in questo mercato emergente e ancora non sufficientemente regolamentato, dunque a basso rischio e con alte possibilità di profitto. II nesso tra crimini ambientali e malavita italiana è altresì prorompente nel traffico e smaltimento illecito di rifiuti. A tal proposito, nel febbraio 2017 la Commissione bicamerale di inchiesta sulle ecomafie ha stabilito la desecretazione di alcuni documenti dell’AlSE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), dai quali è emerso che novanta navi sarebbero state affondate dolosamente nel Mar Mediterraneo dalla criminalità organizzata a partire dagli anni ’90 nel corso di operazioni internazionali di rifiuti illeciti, triangolazioni con traffici illegali di armi e operazioni di riciclaggio di denaro.
Sebbene la legislazione internazionale sui crimini ambientali si stia sviluppando molto rapidamente, si constata che le reti criminali sviluppano le loro strategie ancora più velocemente, sfruttando infatti l’impreparazione internazionale al problema, nonché la divergenza degli approcci adottati dai singoli Stati. Le organizzazioni internazionali maggiormente coinvolte nella lotta contro i crimini ambientali richiedono già da tempo maggiore collaborazione e impegno a tutta comunità internazionale per l’adozione di strategie comuni e coordinate. Infatti, soluzioni nazionali frammentate non sarebbero in grado di rispondere adeguatamente non solo a un fenomeno di portata transnazionale come quello dei crimini ambientali, ma non produrrebbero nemmeno soluzioni omogenee per far fronte alle nefaste conseguenze per l’ambiente e le popolazioni vittime di tali reati.
A conclusione della “Law, Justice and Development Week 2016”, ospitata presso il quartier generale della World Bank a Washington (D.C), Interpol e UNEP hanno presentato il 9 dicembre 2016 il Rapporto “Environment, Peace and Security? A Convergence of Threats” che mette in risalto la correlazione tra i reati ambientali e altre attività illegali gravi, come la corruzione, la contraffazione, il traffico di droga, la criminalità informatica e i reati finanziari, nonché i rapporti con le organizzazioni terroristiche e i gruppi armati non governativi.
“La criminalità ambientale è di portata transnazionale ed ha una natura insidiosa – ha dichiarato il Segretario generale dell’Interpol, Jürgen Stock – Sottrae ai Governi entrate tanto necessarie, alle persone i propri mezzi di sussistenza e alle comunità pace e sicurezza. La comunità internazionale deve sostenere un approccio globale, facendo seguire alla retorica l’azione, la politica con l’attuazione e il rafforzamento della legge con le forze”.
La ricerca ha coinvolto quasi 70 Paesi, rivelando che oltre l’80% delle nazioni considera i reati ambientali come una “priorità nazionale”, e la maggior parte è convinta che le nuove e sofisticate attività criminali rappresentano sempre più una minaccia per la pace e la sicurezza.
Secondo il Rapporto, il valore dei reati ambientali globali ammontano tra i 91 e i 258 miliardi di dollari all’anno che si intrecciano con quelli connessi con altre attività criminali. Ad esempio, i gruppi terroristici e altre reti criminali finanziano le loro attività attraverso lo sfruttamento delle risorse nelle zone di conflitto. I ricercatori stimano che almeno il 40% dei conflitti interni siano correlati allo sfruttamento delle risorse naturali. In altri casi i gruppi criminali approfittano della povertà delle comunità locali per incentivarle a commettere reati come il bracconaggio, il taglio di alberi, la pesca illegale o l’estrazione abusiva di minerali.
I crimini ambientali vanno ben oltre il bracconaggio della fauna selvatica e includono il taglio illegale degli alberi, la pesca abusiva, l’estrazione clandestina di minerali e anche traffico illegale di rifiuti pericolosi. Altri aspetti, come ad esempio lo sfruttamento e il commercio illegale di petrolio e prodotti chimici rischiano di diventare più diffusi nei prossimi anni (Fonte: Interpol – UNEP).
Il Rapporto raccomanda, inoltre, un approccio multidisciplinare per affrontare la criminalità ambientale, un maggiore scambio di informazioni tra i vari settori, una maggiore attenzione all’attuazione delle politiche ambientali e un sostegno finanziario più forte anche attraverso l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo.
“È giunto il momento di affrontare la minaccia della criminalità ambientale, con una risposta coordinata degli Stati membri, delle organizzazioni internazionali e delle Nazioni Unite– ha sottolineato Erik Solheim, Segretario esecutivo dell’UNEP –Tale risposta deve affrontare la necessità di migliorare la condivisione delle informazioni, una maggiore protezione dei civili, una migliore applicazione della legge e una più profonda comprensione dei fattori scatenanti i conflitti“.
Anche il Parlamento europeo con la recente Risoluzione del 18 ottobre 2016 sul Piano d’azione dell’Unione europea contro il traffico illegale di specie selvatiche, esorta ad una maggiore cooperazione, tra l’Interpol, l’Organizzazione mondiale delle dogane (OMD), l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC).
Inoltre, riconoscendo necessità di un partenariato globale più forte per combattere il commercio illegale di fauna selvatica, chiede un aggiornamento sul sostegno finanziario e tecnico per aiutare i Paesi in via di sviluppo nei loro sforzi per ridurre gli incentivi bracconaggio, al fine di migliorare le opportunità economiche e promuovere il buon governo e lo stato di diritto.
Fonti e approfondimenti
Legambiente, Ecomafia 2019 Le storie e i numeri della criminalità ambientale;
Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, Gennaio-Giugno 2019;
Audizione, in videoconferenza, del procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano, Alessandra Dolci, sulla gestione dei rifiuti legata all’emergenza Covid-19, Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati;
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza in prima sezione del 24 gennaio 2019, caso Cordella e altri c. Italia, Ricorsi nn. 54414/13 e 54264/13, Strasburgo;
Chiaff I, Discarded Electronics and Ghana’s Environmental Conundrum: The E-waste Republic, Der Spiegel;
Manca, V., La tutela delle vittime da reato ambientale nel sistema CEDU: il caso Ilva, In Diritto Penale Contemporaneo, Rivista trimestrale N. 1/2018;
Palmisano, M., Il traffico illecito di rifiuti nel Mediterraneo: fenomenologie e strumenti di contrasto, In Diritto Penale Contemporaneo, Rivista trimestrale N. 1/2018;
UNEP, The State of Knowledge of Crimes that have Serious Impacts on the Environment, 2018;
UNEP-INTERPOL,The Rise of Environmental Crime – A Growing Threat To Natural Resources Peace, Development And Security. A UNEP-INTERPOL Rapid Response Assessment. In C. Nellemann, et al., 2016
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