Con interventi di: Carlo MOSCA, Mario CALIGIURI, Roberto DI NUNZIO, Michele SORICE
L’idea di questo Forum nasce dal desiderio di avviare una riflessione sull’esperienza della nostra Rivista, giunta appunto al suo settimo anno di attività. Mentre sulla specificità di tale strumento – sia nella sua tradizionale veste di documento editoriale che in quella “virtuale” che ne consente la consultazione on line nel relativo sito Internet – torneremo nella parte conclusiva del Forum, ci pare opportuno aprire la discussione affrontando il tema più ampio della comunicazione istituzionale, argomento che indubbiamente può essere esaminato sotto diversi punti di vista. Uno dei significati che al concetto di comunicazione istituzionale possono essere attribuiti è quello di processo finalizzato allo “scambio di informazioni”: tra istituzioni, al fine di favorire il coordinamento e l’integrazione tra le diverse aree di competenza; delle istituzioni verso i cittadini, finalizzata quindi alla conoscenza da parte di questi ultimi di quanto realizzato dalle prime; dei cittadini verso le istituzioni, per consentire, laddove è possibile, un’interazione costruttiva tra le due controparti o, per meglio dire, destinata a garantire quel feedback utile e, spesso, indispensabile al miglioramento di qualsiasi “struttura” aperta ad un interlocutore esterno. In tempi recenti, questi processi di comunicazione hanno peraltro determinato, soprattutto all’interno delle società più avanzate sotto il profilo dell’information technology, un mutamento profondo nella gestione della res pubblica sia sotto il profilo organizzativo che culturale, spesso riassunto nell’espressione e-government. Se, in linea di principio, sembra indubbia la portata positiva di un tale fenomeno, restano tuttavia alcuni dubbi circa la concreta applicabilità alla realtà italiana di simili processi che comportano profondi mutamenti, soprattutto di carattere tecnologico, sia sotto il profilo meramente organizzativo che, da un punto di vista più ampio, sotto il profilo della cultura delle istituzioni e di coloro che vi operano. In relazione ad un tale scenario, qual è attualmente la situazione del nostro Paese e quali le principali difficoltà con le quali, a vostro avviso, sarà inevitabile confrontarsi?Mosca – Mi sembra quanto mai appropriato aver ricordato il significato di comunicazione istituzionale sintetizzandolo nello scambio di informazioni tra istituzioni, delle istituzioni verso i cittadini e di questi ultimi verso le istituzioni poiché ciò fa apprezzare la strategicità della comunicazione istituzionale nella gestione della “res pubblica” soprattutto in un ambito come quello dell’Amministrazione dell’interno dove vi è un problema tra identità vissuta e identità comunicata. Desidero affermare che un’amministrazione così centrale nella vita del Paese perché preposta alla cura degli affari interni, perché garante dell’esercizio delle libertà civili, perché custode del bene sicurezza strumentale all’espansione della libertà e al progresso, non deve soltanto vivere questa sua importante identità, questo suo essere, ma ha il dovere di comunicare tale identità alle altre istituzioni e ai cittadini per consentire una costruttiva interazione. Penso che questo processo di comunicazione sia indispensabile per fornire agli utenti cittadini la risposta più adeguata alle loro esigenze e per far apprezzare le istituzioni come veri argini del sistema democratico. Quanto ho affermato ha un suo preciso significato: la comunicazione istituzionale è un nuovo valore che non può e non deve essere trascurato. E’ un valore che impone un cambiamento di cultura e di adesione ad un modello partecipativo e di condivisione superando l’antico modello “proprietario” tutto accentrato su una visione “egocentrica” delle istituzioni che vanno difese perché esistono e non perché sono utili. Alla domanda sulla situazione nel nostro Paese e sulle difficoltà da superare, non posso però sottrarmi anche se parlare di difficoltà significa indirettamente riconoscere lo stato della situazione. Ritengo quasi inevitabile la lentezza con cui le istituzioni e gli uomini delle istituzioni del nostro Paese vivono il nuovo modello di comunicazione. Si tratta infatti, per quanto ho detto, di un processo lungo e articolato che può essere facilitato tramite accurate iniziative formative, attraverso confronti e dibattiti che facciano cogliere i vantaggi e gli svantaggi di scelte effettuate sul campo dinanzi a grandi avvenimenti, tramite infine l’istituzione di presidi permanenti a livello di organizzazione centrale e periferica strumentati in maniera da reggere ad una sfida che non è agevole da affrontare ma che va necessariamente affrontata.Di Nunzio – Riguardo alla comunicazione pubblica o se preferiamo istituzionale le idee non sono certo chiarissime né tra gli studiosi né tra gli operatori e, se mi è consentito, nemmeno da parte del Legislatore. Molti sono gli interventi, ma altrettanto numerose sono le lacune che lasciano scoperti aspetti non marginali se vogliamo definire esattamente la funzione di questo particolare processo informativo tipico di altrettanto particolari organismi. Un fenomeno piuttosto recente, che da poco è riuscito ad affermare la sua autonomia, non ancora piena, dalla comunicazione politica. Tenuta saldamente in mano, almeno sino agli anni 70, dai politici la comunicazione pubblica è stata esercitata a lungo in Italia come funzione meramente propagandistica. In questo periodo non era quasi concepibile che fosse l’istituzione a comunicare. L’identità politica e quella amministrativa erano compenetrate se non univoche. Successivamente, dai primi degli anni 70 agli inizi degli 80, si affermava un modello di “comunicazione unidirezionale” nato dallo sviluppo di una coscienza di un rapporto basato sui diritti-doveri che deve legare la pubblica amministrazione al cittadino. Quest’ultimo comincia a non sentirsi più “suddito” dello Stato che con la nascita delle Regioni si apre a nuove istanze organizzative. La comunicazione pubblica rimane, però, percepita come un processo a senso unico: posto in essere dall’amministrazione verso i cittadini. Sarà soltanto negli anni 90 che nascerà l’attuale terza fase: quella della “comunicazione bidirezionale”. In questa fase si svilupperà sempre di più l’affermazione del concetto di “marketing dei servizi e dell’istituzione pubblica”. Si aprono dispute vivacissime sia sul modo di intendere e praticare la comunicazione sia su quello di concepire le funzioni della pubblica amministrazione. Dibattiti non più soltanto politici od accademici, ma che coinvolgono in prima persona i rappresentanti degli enti interessati, i professionisti della comunicazione e i cittadini. Alla luce di quanto indicato espressamente dalla recente legge 150 del 7 giugno 2000, “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”, che elenca tutte le finalità di questo processo informativo, non vi compare quella, per me fondamentale, di “comunicare l’istituzione”. In effetti, quella che viene definita come comunicazione istituzionale o pubblica non è altro che una sistemazione con la carta carbone della comunicazione aziendale. In effetti, basterebbe una breve riflessione sugli aspetti etimologici del termine “comunicazione istituzionale” per evidenziare la sua reale doppia natura. Per comunicazione “istituzionale” siamo, infatti, portati ad intendere immediatamente qualsiasi processo informativo nascente da un’istituzione pubblica, ma in realtà il termine “istituzionale” attiene a qualsiasi istituzione, vale a dire, a qualsiasi “organismo costituito – istituito – per il perseguimento di un dato fine”. Istituire, dal latino instituere – in (dentro) e statuere (collocare) – significa contemporaneamente “fondare stabilmente su leggi, norme, usi” ed “educare”. Pertanto, ogni istituzione di per se comporta una duplice azione basata sull’organizzazione ed il mantenimento di se stessa e la trasmissione delle “norme” che la reggono. Del resto la legge n. 150 del 7 giugno 2000 non si discosta dai due principi indicati, anche se li sviluppa, dettagliandoli in un lungo elenco di “finalità dell’informazione e della comunicazione pubblica”. La legge sembra raccogliere tutti gli elementi che concorrono alla comunicazione, ma in realtà qualche spazio rimane aperto, infatti un tema fortemente discusso, prima e dopo l’approvazione della legge 150/2000, è stato proprio quello del rapporto tra le URP – Uffici Relazioni con il Pubblico e la complessa area delle funzioni: creative e produttive; connesse alla comunicazione integrata, come ha fatto notare recentemente Stefano Rolando in un articolo apparso su “Pubblicando – Comunicazione pubblica in rete” del 26.2.2001. La sistemazione riportata nella legge, al di là delle possibili critiche, sicuramente crea una griglia efficace e per certi aspetti esaustiva per professionisti, operatori e studiosi, ma altrettanto sicuramente non contribuisce a dare ali e identità alla comunicazione pubblica. Il processo, ripeto, sfugge ad una definizione univoca anche da parte degli studiosi e degli stessi professionisti ed operatori. Particolarmente interessante la ripartizione proposta da Stefano Rolando, uno dei padri dello sviluppo della comunicazione pubblica in Italia, che distingue già dal 1992 tra: · “comunicazione pubblica”, quella posta in essere dai partiti e dagli attori della politica, destinata a produrre effetti in tale area; · “comunicazione di solidarietà sociale”, quella posta in essere da vari organismi per promuovere cause sociali; · “comunicazione istituzionale”, quella posta in essere dagli organi dello Stato, destinata ad un servizio di informazione presso il pubblico, nonché alla promozione dell’immagine dell’istituzione pubblica. L’e-goverment, imposto dall’information technology, ha provocato un mutamento profondo nella gestione della res pubblica sia sotto il profilo organizzativo che culturale. Però, probabilmente, in ogni Paese del mondo è nato e si è sviluppato più per la mera conseguenza dell’applicazione delle tecnologiche informatiche che per una pensata e reale voglia di democratizzare i processi della Pubblica Amministrazione. Comunque è indubbio che la trasformazione ha influito sull’abbattimento di concezioni e prassi verticistiche a tutto vantaggio di quelle orizzontali.Sorice – Ci sono, a mio avviso, diversi problemi, collocati su piani differenti. Il primo piano è quello culturale. La società italiana, infatti, appare ancora in difficoltà – rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea – nella piena interiorizzazione dei diritti di cittadinanza attiva. La comunicazione pubblica e istituzionale è, da questo punto di vista, paradigmatica: la logica della Pubblica Amministrazione è stata, ancora in un passato prossimo, quella dell’attendismo. Il cittadino chiede, l’Amministrazione risponde, forse. Solo a partire dall’inizio degli anni Novanta la logica comunicativa della Pubblica Amministrazione è diventata di tipo interattivo, più attenta ai bisogni reali dei cittadini, ancora utenti ma sul punto di diventare clienti. Sottolineo che uso i termini “utente” e “cliente” in antitesi non perché essa sussista effettivamente ma per indicare il percorso evolutivo nelle logiche comunicative della Pubblica Amministrazione. Il pacchetto di leggi che va sotto il nome generico di “riforma Bassanini” ha costituito una vera e propria rivoluzione culturale; da una logica interattiva, ancora fondata solo sui bisogni esplicitamente espressi, siamo passati a una logica proattiva: lo Stato e la Pubblica Amministrazione hanno cominciato a fornire risposte anche a bisogni inespressi ma reali e, soprattutto, hanno posto i cittadini nella condizione di porre le domande giuste nel modo più efficace. Ecco, prima ancora che nel suo effetto giuridico e sostanziale, la riforma Bassanini ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo di una nuova cultura della comunicazione istituzionale. Non più e non solo una comunicazione intesa come scambio di informazioni fra soggetti asimmetrici bensì un rapporto comunicativo circolare: cittadini e Amministrazione, amministratori e amministrati diventano – se mi permettete l’uso di una terminologia di derivazione semiotica – coenunciatori che partecipano congiuntamente al processo di costruzione di senso, cioè, detto in altri termini, attori consapevoli nella costruzione della propria realtà sociale. Ecco, da questo punto di vista, mi pare che il processo culturale avviato – ben lungi dall’essere concluso – abbia però posto le premesse per un nuovo modo di intendere i diritti di cittadinanza, in definitiva per un’effettiva “europeizzazione” degli italiani. Le resistenze a questo processo di rinnovamento, però, sono ancora notevoli e in molte realtà persistono ancora forme culturali di rifiuto e arroccamento sulle vecchie logiche, quelle, per intenderci, che fanno dei cittadini soltanto sudditi. Il secondo piano, invece, riguarda la modernizzazione tecnologica. Su questo piano, a mio parere, insistono a loro volta due tipi di problemi. Il primo è squisitamente tecnico-industriale: lo sviluppo del Paese, su questo fronte, è stato lento e ha subito un’accelerazione solo negli ultimi tre-quattro anni. È vero che siamo fra i primi in Europa per numero di parabole e per telefonini ma, allo stesso tempo, siamo molto indietro per quanto concerne la diffusione dei personal computer, usiamo relativamente poco le reti telematiche e la maggior parte degli uffici pubblici non usa intranet o reti locali – senza dimenticare che spesso non si usano nemmeno i computer… Il secondo tipo di problema, su questo piano della modernizzazione tecnologica, è ancora una volta di tipo culturale: è ancora poco diffusa la fiducia nell’uso delle tecnologie. Basta pensare al numero di transazioni economiche in rete e, in generale, al difficile radicamento dell’e-commerce in Italia. Colpa anche dell’insicurezza della rete, è vero, ma in fondo queste paure sono sovradimensionate. Appartiene a questo tipo di paure – l’ignoto tecnologico – anche la demonizzazione mediatica di Internet nei casi recenti di azioni criminose (dalla pedofilia al terrorismo) come se ne fossero responsabili le tecnologie avanzate. Prima le “risoluzioni strategiche” o le “foto particolari” si inviavano per posta ma nessuno ha mai pensato di sospendere il servizio postale o di controllarlo in maniera censoria: è significativo che le paure sociali su Internet rispecchino una più generale paura delle tecnologie. Nello stesso ambito culturale si situano le resistenze all’uso delle nuove tecnologie nell’implementazione dei servizi della Pubblica Amministrazione. Cito, a solo titolo d’esempio, le resistenze che ci sono state riguardo l’introduzione della firma digitale. Per non parlare delle resistenze alla possibilità di introdurre il voto elettronico. E su quest’ultimo punto – a costo di rischiare un’apparente contraddizione – pongo anch’io una perplessità, proprio in ragione di quanto ho fin qui detto. Se non si compie e completa il processo di modernizzazione tecnologica, sia dal punto di vista tecnico sia da quello culturale, non sarà possibile introdurre innovazioni di questo tipo: socialmente percepite come poco affidabili e oggettivamente ancora culturalmente distanti dalle abitudini di vita della società italiana.Di Nunzio – Il problema è che siamo in presenza di un modo di lavorare del tutto estraneo a qualsiasi Pubblica Amministrazione che per sua stessa natura era basata sul segreto, come dimostra lo stesso nome di Ministero che nasconde nelle sue radici quel mystes che vuol dire “iniziato”. Introdurre in una realtà, che considera l’informazione un segreto ed un valore, uno strumento che per il suo stesso uso la rende pubblica e trasparente può generare forti attriti e resistenze, soprattutto se si pensa che il computer fa venir meno quel rapporto “uomo-uomo” molte volte indispensabile ad un “capo” per affermare il proprio comando. Un’ operazione ulteriormente difficile visto lo scarso aiuto che può venirle da un sistema scolastico ed universitario non sempre al passo con i tempi e più o meno basato sugli stessi principi. Sono pienamente convinto, anche per mie esperienze dirette presso la Camera dei Deputati e presso alcuni Ministeri, che le Pubbliche Amministrazioni si stanno rendendo conto delle enormi opportunità di sviluppo per i propri servizi che nascono da Internet e dalle applicazioni informatiche. Del resto questa stessa tavola rotonda ne è un esempio emblematico, come pure il sito del SISDe. Sono sempre più numerosi i siti di enti pubblici ben realizzati non solo graficamente, ma per articolazione e rispondenza dei contenuti, realizzati come strumenti interattivi, vere interfacce per erogare servizi, come l’accesso in tempo reale agli atti amministrativi, la modulistica o la consultazione di sempre più numerose banche dati pubbliche, per non parlare della firma digitale o della dichiarazione dei redditi on-line. Siamo ben consci che la realtà delle Pubbliche Amministrazioni è ancora rappresentata da un mondo in cui la trasparenza rimane piuttosto opaca, l’accesso non sempre accessibile e le competenze informatiche scarse e non valorizzate. Del resto gran parte dei Ministeri è ancora priva di Uffici URP e non ha certo realizzato i piani programmatici di comunicazione o i corsi di formazione previsti dalla legge. Sicuramente sono necessarie iniziative coraggiose che stimolino, incoraggino e supportino prima di tutto chi, questi servizi, li deve promuovere e sostenere; ma il quadro è decisamente mutato; ripeto: c’è una legge, anzi più di una, ci sono associazioni di professionisti e di addetti alla comunicazione pubblica, ci sono strumenti e volontà, ci sono soprattutto ormai diverse persone nella Pubblica Amministrazione in grado di portare avanti strumenti e metodologie innovative.Caligiuri – La comunicazione delle Istituzioni pubbliche sta diventando sempre più centrale sia come strumento di sviluppo democratico che di crescita economica. Le Istituzioni debbono adeguarsi con sempre maggiore velocità rispetto ai mutamenti, tanto che si parla di intelligenza delle istituzioni, che tra i compiti essenziali hanno proprio quella di “elaborare informazioni”. In tale contesto, si va verso una informatizzazione degli apparati pubblici sempre più accelerata, che è stata avviata prioritariamente dagli States nel 1993, con un progetto di massiccia informatizzazione della burocrazia federale che ha portato a risultati importantissimi, contribuendo anche in questo modo allo sviluppo della new economy che ha rafforzato il predominio americano nel mondo. In Italia, pure nel 1993, è stata istituita l’AIPA, l’autorità che promuove lo sviluppo dell’informatica nella pubblica amministrazione, per preparare la Rete Unitaria della Pubblica Amministrazione che dovrebbe fare condividere le informazioni e le banche dati nazionali e regionali ma che ancora stenta fortemente a decollare. Oggi è sempre più centrale il capitale intellettuale e quindi i processi formativi ma, tra i Paesi più avanzati, l’Italia è attualmente ultima in “economia della conoscenza”. Anche questo accentua i ritardi nella comunicazione tra istituzioni e con i cittadini. Tali situazioni sono indiscutibilmente determinate da fatti storici, quali la costruzione dello Stato italiano che, come ha sostenuto Putnam, “è esteso e costoso come tutti gli altri Stati europei maturi ma si differenzia da questi ultimi perché debole ed inefficace” e dalla diversa presenza di senso civico che differenzia il funzionamento delle istituzioni nelle regioni del Paese. La cultura della comunicazione diventa quindi, a mio avviso, una diretta espressione della cultura delle istituzioni, che va mediata con lo sviluppo delle nuove tecnologie che hanno già modificato, e lo faranno ancora di più nel prossimo futuro, i comportamenti sia delle istituzioni che dei singoli. Nel nostro Paese, peraltro, la conoscenza delle informazioni pubbliche si è sempre avuta con notevole difficoltà. Basti pensare, per esempio, che in Svezia l’accesso agli atti pubblici era possibile fin dal 1766 mentre da noi se ne comincia a parlare concretamente solo dal 1990. E, com’è noto, anche la circolazione delle informazioni pubbliche rappresenta un decisivo fattore di sviluppo, non solo sociale ma anche economico. L’organizzazione dello Stato, in tutte le sue articolazioni, va profondamente rivista, alla luce del processo federale e di sussidiarietà che si va profilando e che tende ad avvicinare maggiormente le scelte pubbliche al controllo del cittadino, anche dal punto di vista fiscale. Questo processo è stato sintetizzato efficacemente da Giulio Tremonti con i tre verbi: “Vedo, pago, voto”. La prima difficoltà è quindi rappresentata dall’attuale funzionamento dell’apparato pubblico, poco incline a dialogare con il cittadino e con le imprese. Un secondo elemento di freno è quello relativo alla selezione della classe dirigente, che nel nostro Paese ha storicamente avuto lo sguardo corto, nel senso che ha concentrato tutta l’attenzione sul presente della lotta politica senza essere capace di disegnare progetti percorribili per il futuro. Il terzo elemento di debolezza mi sembra costituito dal sistema della formazione e della ricerca, per nulla collegato al mondo della produzione e incentrato su modelli travolti dai tempi, per non dire degli investimenti minimi indirizzati in tale direzione. Pertanto nelle scuole e nelle università, ci sono docenti che sono stati selezionati approssimativamente, che seguono programmi didattici antiquati, che vengono pagati male, che operano all’interno di strutture inadeguate, che conoscono poco e male l’informatica e le lingue. Il risultato paradossale è che il 25% dei giovani diplomati e laureati è a rischio di analfabetismo. E poi ci meravigliamo che non riusciamo a reggere il passo con le sfide della new economy. E questo introduce la quarta difficoltà che è invece rappresentata dalla poca velocità con la quale ci si confronta con il nuovo ordine mondiale. Nel marzo del 2000 a Lisbona, l’Unione Europea ha stabilito un decalogo tutto incentrato sulle nuove tecnologie, per promuovere lo sviluppo dei prossimi anni. Il nostro Paese parte in ritardo, anche per mancanza di giovani formati. Allora diventa fondamentale avere la capacità di conoscere e capire per tempo quello che avviene anche al di là delle nostre frontiere, per cogliere le opportunità della globalizzazione anche per il nostro Paese. Pertanto, essere in grado di avere informazioni attendibili sulle tendenze e le previsioni è un elemento decisivo per assumere decisioni pubbliche in direzione dell’interesse nazionale.Per quanto concerne il tema della comunicazione istituzionale verso l’esterno, è evidente che gli OO.II. costituiscono una realtà del tutto peculiare. L’antinomia trasparenza-segreto nel caso dei Servizi informativi si avverte in maniera pressante e spesso ardua è la sua risoluzione attraverso decisioni strategiche che salvaguardino, al medesimo tempo, la riservatezza necessaria all’operatività dei Servizi e il diritto dei cittadini, in uno Stato democratico, di essere informati sull’impiego delle risorse pubbliche nell’attività di intelligence e sui relativi risultati. Se può, dunque, essere vero, in linea di principio, che l’incapacità di un’istituzione di creare e gestire una propria immagine porta questa a subire “immagini imposte” dall’esterno, che possono quindi anche essere distorte, nel caso degli OO.II. quale importanza ritenete abbia la comunicazione esterna ai cittadini per i quali l’attività di intelligence costituisce la risposta alla domanda di sicurezza che la comunità pone? In particolare, attraverso quali canali o modalità questa, a vostro avviso, potrebbe verificarsi, considerando che, allo stato attuale, se si esclude la facoltà del Presidente del Consiglio e dei Ministri competenti di intervenire in Parlamento o fuori di esso sull’attività di intelligence, l’unico strumento di “comunicazione” normativamente previsto relativamente all’operato dei Servizi è la relazione semestrale sull’attività informativa svolta, presentata dal Governo al Parlamento?Di Nunzio – Ritengo, da professionista della comunicazione, che non solo sia vero in linea di principio, ma, soprattutto nella pratica quotidiana che l’incapacità di un’istituzione, come pure di una persona, a creare e gestire una propria immagine porti questa a subire “immagini imposte” dall’esterno, che saranno sicuramente distorte. Mi sono occupato a lungo di alcuni aspetti della comunicazione militare per dire che certe istituzioni dello Stato più di altre subiscono i traumi di questi processi. Da una parte l’esigenza di comunicare, dall’altra quella di non perdere la propria identità costruita in un ambiente assolutamente interno e chiuso all’esterno che spesso fa preferire il silenzio. E’ ovvio che non si può comunicare tutto e che non si possa rispondere ad ogni cosa detta dal mondo dei media, ma è altrettanto ovvio che qualcosa si debba pur fare se non si vuole che gli altri pensino tutto il male possibile. La reale esigenza di comunicare da parte di enti di per se custodi di segreti per lo più è affrontata male, perché molto spesso le esigenze economiche e normative, come pure certe consulenze esterne, spingono ad adottare frammentariamente strumenti e metodologie proprie della commerciale od aziendale con strumenti e metodologie incentrate sul prodotto e il servizio. Questo è l’errore tipico in cui troppo spesso abbiamo visto cadere la comunicazione della Pubblica Amministrazione, quando non c’è stata la scelta ancora peggiore del “non comunicare”. Gli ostacoli di ogni tipo, soprattutto culturali, erano e sono ancora notevoli per un’istituzione che oggi, basata sui “volontari”, rischia di rimanere senza materia prima proprio a causa di una passata cattiva proiezione di identità ed immagine. Per affrontarli, salvaguardando e anzi esaltando l’identità dei Servizi, servono strumenti nuovi e più complessi di quelli previsti dalla legge 150/2000. Come per gli altri Servizi degli altri Paesi occorrerebbe far nascere una favorevole “mitopoiesi”. Si rifletta non solo sul fascino di James Bond, il mitico 007, o sui film attuali che ci giungono dagli USA, vera e propria comunicazione istituzionale mascherata, che pur ponendo in luce il conflitto esistente tra CIA, FBI e NSA ne esalta di fatto l’operato e gli uomini. I miti, ma molto spesso l’immagine, attorno ai Servizi sono sempre stati alimentati dallo Stato attraverso strumenti e metodologie “coperte”. Il nostro Paese sicuramente non è riuscito a farlo per gli agenti segreti, ma è indubbio e sotto gli occhi di tutti che è riuscito a farlo con risultati egregi sia per l’Arma dei Carabinieri e più recentemente per la Polizia di Stato, in un passato molto prossimo, letta assai negativamente per l’impiego in azioni repressive, diciamo, “antipopolari” e per “l’Ufficio Affari Riservati”. Una connotazione questa ultima che la rendeva sicuramente identica ai Servizi. Indubbiamente il SISDe non è stato fermo. Ha sviluppato una sua azione di comunicazione molto selettiva che ha gettato più di un ponte con l’esterno. Ovviamente, non dovendo agire attraverso uomini in divisa nella società le sue esigenze e strategie di comunicazione sono meno “massive”. In effetti, la rivista, il sito Internet ad essa collegato e la Scuola di addestramento sono già strumenti, canali e metodi validissimi che aprono le porte ad un’osmosi positiva tra operatori dell’intelligence e società, facendolo per altro nel modo più trasparente ed identitario possibile. Altrettanto indubbiamente la Relazione semestrale sull’attività informativa svolta presentata dal Governo al Parlamento consente di realizzare quella necessaria trasmissione di informazione e conoscenza tra enti e, successivamente, con i cittadini richiesta dal buon funzionalmente della comunicazione pubblica. Esistono organismi per loro stessa natura considerati dai media demonizzabili e sicuramente tra questi ci sono i Servizi. Modificare questa impostazione è duro, ma non impossibile. Né richiede di abbassare il livello della comunicazione o di aumentarne il volume. Basta continuare la strada che si è intrapresa al SISDe, magari estendendo gli inviti a conferenze, dibattiti ed interventi didattici, quando possibile, ad un maggior numero di giornalisti, professori ed altri “moltiplicatori” o opinion leader, facilmente selezionabili per interessi scientifici, culturali e sociali. Aprire una struttura non è metterne in piazza i segreti, ma semmai farne conoscere gli uomini. Se poi si vuole pensare a processi di comunicazione più estesi e capaci di raggiungere l’immaginario collettivo si deve agire attraverso gli strumenti deputati che non sono oggi certo i giornali con un numero di lettori complessivo giornaliero pari al pubblico di un solo telegiornale. Dovremmo riflettere più spesso sul fatto che cinema e televisione attraverso i loro riti e le loro mitopoiesi costituiscono per molti quasi l’unico canale di informazione. Anche in questo caso non è però necessario fare storie “popolari”, basta vedere la complessità raggiunta da alcune pellicole statunitensi giocate come veri e propri strumenti di comunicazione istituzionale o statale.Sorice – Il problema della “trasparenza dell’opaco” come la definisco io è di difficile risoluzione. Il primo problema risiede nell’assenza di strumenti comunicativi adeguati: la relazione semestrale non è, in realtà, uno strumento comunicativo efficace perché i destinatari reali sono i cittadini solo in seconda battuta mentre il vero “target” è costituito dal Parlamento, espressione della volontà popolare, certo, ma spesso ancora lontano, anche a causa del linguaggio burocratico adottato, dalla cosiddetta società reale. Il secondo problema si trova nella storia pregressa dei servizi di intelligence in Italia, sia quella reale sia quella raccontata dai media (che a volte può non essere reale ma assume effetti di realtà per il fatto stesso di essere raccontata). È un po’ come per un’azienda: la sua “corporate image” deriva da molti fattori, fra questi c’è anche la sua storia e la sua immagine percepita. Un’immagine che, molto spesso, è intrecciata alla sua stessa evoluzione diacronica. Bisogna ammetterlo: l’immagine che proviene dal passato non sempre è confortante (e poco importa, ahimé, che gli addebiti siano a volte presunti o inventati, il problema d’immagine purtroppo persiste). Il terzo problema è, invece, strutturale: come può un servizio di intelligence fare comunicazione senza venir meno ai suoi obblighi di riservatezza? Secondo me il problema, posto così, non è risolvibile. Il fatto è che un servizio di intelligence non deve comunicare le sue operazioni – ci mancherebbe altro ! – né i suoi progetti; detto in altri termini un servizio di intelligence non deve comunicare il suo “prodotto” bensì la sua identità. Esattamente come tante aziende, soprattutto quelle che vendono beni ad alto contenuto simbolico. I servizi di intelligence devono comunicare la propria “corporate identity” e attivare percorsi di implementazione dell’immagine senza necessariamente sviluppare una crescita di notorietà. In quest’ottica il sito rappresenta un buon inizio ma non deve limitarsi a essere un “sito-vetrina”, deve consentire un minimo di interattività e di partecipazione sociale. Senza naturalmente dimenticare gli altri strumenti di comunicazione: ma su questo, mi rendo conto, occorrerebbe una discussione anche di natura giuridico-costituzionale.Caligiuri – Il problema centrale è: come può un’attività per definizione riservata essere resa pubblica? Se i Servizi non sono più “segreti” perdono di significato, perché se ne vanifica inevitabilmente l’azione. Si pone quindi il legittimo problema di come contemperare la comunicazione istituzionale con la necessaria riservatezza dell’attività dei Servizi. Scrive opportunamente Francesco Cossiga: “I servizi segreti sono efficienti solo se sono segreti. Questo limita la possibilità di controllo, di dettaglio sul loro operato. Deve esistere un rapporto fiduciario fra i responsabili politici e i vertici dei Servizi. Il controllo non può prioritariamente che essere interno”. Anche per questo, credo che sia importante collegarci con quello che avviene nel resto del mondo, da un lato senza recepire integralmente le esperienze altrui (che sono ovviamente calate in contesti statali, culturali ed operativi specifici) e dall’altra tenendo conto della nostra realtà effettiva. Basti pensare che finanche i servizi segreti israeliani, che sono considerati tra i migliori del mondo, si sono adeguati all’evidenza della pubblicità, allestendo un sito Internet e facendo conoscere dal 1996 l’identità del misterioso Direttore Generale del Mossad, che fino ad allora era sconosciuta al pubblico e che veniva identificata con il nome in codice “S”. Di fronte a scenari mondiali in evoluzione, con i popoli dei Paesi in via di sviluppo che pressano sempre più alle porte di quelli sviluppati, le sfide saranno sempre più giocate sul terreno della geoeconomia e dello scontro ambiguo e senza quartiere tra potere legale e potere illegale. Nel nostro Paese, l’immagine e la considerazione dei Servizi non è positiva eppure la funzione a cui debbono assolvere può risultare decisiva nei prossimi anni sia per l’ordine pubblico interno che per il ruolo dell’Italia nel mondo. Appunto per questo, è importante che venga messa a punto un’azione di comunicazione istituzionale che promuova all’esterno i Servizi: cosa sono, cosa fanno, quanto costano, quali risultati raggiungono. Ovviamente, questi dati vanno offerti nel modo più semplice possibile, raggiungendo in modo efficace la pubblica opinione. Va innanzi tutto predisposta un’azione di recupero di credibilità, che è possibile con una campagna di lifting della comunicazione, abbinandola però a risultati concreti. Solo in questo modo, si può recuperare l’immagine perduta ed evitare che interessi estranei a quelli nazionali possano avere il sopravvento, anche screditando e rallentando l’azione dei Servizi. Evidentemente, la sola relazione semestrale sull’attività informativa del Governo al Parlamento, peraltro neanche sempre esaminata e discussa sempre molto distrattamente, non è più sufficiente. Vanno trovati necessariamente altri canali, che ovviamente tengano conto della riservatezza del settore. Diciamo cose ovvie se ribadiamo che non è possibile fornire informazioni sulle attività in corso oppure su quelle che richiedono una indispensabile riservatezza nell’interesse delle istituzioni e delle alleanze internazionali; riservatezza che viene valutata dall’organo politico, al quale compete una responsabile funzione di indirizzo e di controllo. La legge attuale che regolamenta i Servizi risale al lontano 1977 ed è evidente che essa vada modificata molto presto. A mio avviso, la proposta presentata nel 1995 da Cossiga al Senato può ancora oggi rappresentare un valido canovaccio sul quale discutere ed all’interno del quale prevedere maggiori e più esplicite forme di comunicazione e di informazione ai cittadini. Tra queste, per esempio, potrebbe essere utile la realizzazione di un rapporto annuale sui risultati conseguiti, oppure una pubblicazione di presentazione, predisposta per essere venduta nelle librerie e nelle edicole, sull’esempio della Gran Bretagna. Risulterà sempre più importante rafforzare la funzione di Internet, così come collegarsi con le università per coinvolgerle nell’elaborazione delle politiche di intelligence e nel reclutamento del personale, come avviene da sempre nel mondo anglosassone. Si potrebbe, inoltre, valutare la possibilità di svolgere delle conferenze stampa in occasione degli episodi più rilevanti, ovvero designare, tra i funzionari, la figura di un portavoce per i Servizi. Tutto questo diventa importante per dimostrare che anche in Italia non solo i Servizi servono, ma, nel mondo contemporaneo, sono indispensabili oggi più che mai.Mosca – Ritengo anche io che sia molto difficile far convivere il binomio trasparenza-segreto, ma che sia inevitabile in una democrazia avanzata quale l’italiana informare i cittadini sull’impiego delle risorse pubbliche nell’attività di intelligence e sui relativi risultati. Se non si condivide questa impostazione diventa inevitabile “subire” immagini imposte dall’esterno, spesso distorte proprio dalla carenza di una corretta informazione. E’ il problema più in generale del rapporto tra società italiana e Amministrazione dell’interno ma più in particolare tra Servizi di intelligence e società. Confermo pure in questo campo la strategicità della comunicazione istituzionale in tutti i segmenti di flussi che sono stati dianzi individuati: verso le altre istituzioni, verso i cittadini e viceversa. In questo momento storico, poi, in cui la comunità ha una specifica sensibilità ai problemi della sicurezza e li vive in una maniera così intensa perché li collega alla qualità della vita quotidiana e alla difesa di un modello di società, penso sia più che mai indispensabile accelerare ogni progetto comunicativo pure nel settore dell’intelligence, ovviamente con l’intelligenza delle istituzioni cioè con quelle cautele necessarie ad evitare che un fattore di vantaggio possa rivelarsi svantaggioso per la complessiva strategia operativa. Circa i canali di tale comunicazione – e vengo così alla seconda domanda – ritengo utile verificare attività ed esperienze in atto, ricognire ambiti e modi dell’attuale processo di comunicazione istituzionale che evidentemente non può limitarsi ai pochi interventi del Presidente del Consiglio o dei Ministri responsabili in Parlamento o alla relazione sulla attività informativa svolta, certamente strumenti importanti ma non sufficienti per far crescere – posto che già esista un livello accettabile – una nuova cultura dell’intelligence come cultura della difesa degli interessi vitali del Paese. Penso che prima o poi occorrerà riflettere. Spero prima. E’ un dato oggettivo infatti che venga dai cittadini la richiesta e la sollecitazione alla modernizzazione delle politiche di comunicazione e di relazioni pubbliche anche in materie e ambiti così delicati per lo spessore e la qualità delle questioni trattate. Certo, non si può prescindere dall’analisi della notiziabilità e della comunicazione dovuta rispetto a quella non dovuta, ma sarebbe catastrofico per l’istituzione rinunciare a priori schermandosi dietro una vetero impostazione di segretezza che non ha più ragione di essere. Voglio rispondere però anche sulla specifica richiesta dei canali. Preferisco sintetizzare così: apertura controllata al mondo dei mass-media curando i rapporti – così come avviene in molti altri Paesi democratici – con i direttori delle maggiori testate giornalistiche del Paese; apertura al mondo della cultura soprattutto al mondo universitario, per promuovere convegni, seminari, tavole rotonde, corsi, perfino auspicando lauree o tirocini di intelligence allo scopo di accreditare la cultura sana dell’intelligence; apertura al mondo delle amministrazioni pubbliche per favorire il coordinamento e l’integrazione ma anche per sollecitare collaborazione e confronti necessari e utili. Questi ritengo siano i primi passi di una corretta politica di comunicazione istituzionale nel campo dell’intelligence.Passando ora ad esaminare il versante interno della comunicazione istituzionale, dobbiamo considerare che le strutture di intelligence sono inserite in un circuito informativo all’interno del quale sono, unitamente ad altre istituzioni, destinatarie di input informativi esterni, ossia ricevono richieste di informazione e, allo stesso tempo, sono produttori di offerta informativa, ossia hanno il compito di fornire alle istituzioni di riferimento i “dati” necessari all’adozione di decisioni politiche attinenti ai problemi della sicurezza (quella che gli inglesi chiamano “dissemination”). Il pieno funzionamento e l’efficacia sotto il profilo della tutela della sicurezza di un simile meccanismo è strettamente correlata, tuttavia, proprio alla capacità di tutte le componenti di un simile “apparato” di comunicare tra loro, di scambiare informazioni, di interagire costruttivamente. A vostro avviso, cosa manca alla cultura istituzionale del nostro Paese affinché questo processo di integrazione si sviluppi pienamente e quanto influiscono sulla sua realizzazione gli inevitabili limiti alla comunicazione da parte dei Servizi derivanti dalla peculiarità della loro attività?Di Nunzio – Debbo confessare che questa domanda mi affascina perché ritengo possa consentirci di abbandonare il passato per farci guardare direttamente ad un possibile prossimo futuro. In effetti, nell’Era dell’Informazione i Servizi possono essere considerati in una visione allargata e, forse, poco rigorosa sul piano istituzionale, delle vere e proprie “industrie statali”, molto simili ad altre “private” che stanno nascendo e si stanno affermando velocemente in tutto il mondo per trasformare dati ed informazioni in vera conoscenza. I presupposti come è stato scritto da altri su “Per Aspera ad Veritatem” ci sono tutti e potrebbero essere anche istituzionali. Tutti noi sappiamo che la caduta del Muro di Berlino non significa né ha significato la fine della storia. I problemi legati allo sviluppo dei popoli restano, anzi assumono nuove e sconcertanti caratteristiche sotto la spinta delle applicazioni delle nuove tecnologie ad attività classiche quali il commercio, l’agricoltura e l’allevamento. Le grandi linee di questo sviluppo prossimo-venturo sono già ben visibili, Lo scontro, come ha sostenuto giustamente Rèmi Kauffer al Convegno sull’ Intelligence alle soglie del 2000 del febbraio di quest’anno, è oggi soprattutto industriale, tecnologico e commerciale. Uno scontro che, come l’analista francese ha indicato, facendo eco a quanto sostenuto da Edward N. Lutwak, ha tra i suoi protagonisti gli USA, il Giappone e l’Europa, non come alleati, ma come avversari. Ovviamente questa situazione non mette in discussione l’adesione alla NATO o la solidarietà alla lotta al terrorismo nazionale ed internazionale, ma lascia il campo libero alla lotta economica e, quindi, all’intelligence economica. Anche a non voler essere d’accordo con questi analisti, è innegabile che la tendenza all’egemonia degli USA si accentua indiscutibilmente con la supremazia totale di questo Stato sulla produzione, gestione e controllo, attraverso sofisticate tecnologie, della conoscenza e di ogni tipo di informazione. Supremazia dimostrata del resto anche dalla nazionalità degli “espositori” più tecnologici presenti in questo convegno. Un terreno in cui, l’Europa, altrettanto sicuramente, per ora, è e rimane indietro, con i vari paesi membri sgranati all’inseguimento, non solo rispetto alla proprie capacità tecnologiche, ma alle loro sensibilità verso i nuovi scenari. Una sensibilità verso il mondo dello sviluppo tecnologico ed economico che oggi fa la differenza. Proprio in quel Convegno ho sentito l’esigenza di formulare un nuovo ruolo dell’ intelligence rispetto al possibile utilizzo di una parte della sua funzione informativa al servizio dello sviluppo economico del nostro Paese, come del resto già fatto da altri. Mi riferisco ai possibili rapporti “istituzionali” e alle possibili “politiche integrate” che potrebbero essere attivate, sotto il controllo di normative adeguate, non solo tra organismi dello Stato, ma tra questi e le nostre industrie in particolare quelle strategiche. Ritengo che sia evidente a tutti noi che il ruolo e l’esistenza stessa dei Servizi, soprattutto futuri, non potrà più prescindere da tali rapporti, se vogliamo che il nostro Paese rimanga tra i primi 8 del mondo. Questo è per me uno dei nodi veramente essenziali del futuro dell’intelligence. Un futuro che in altri Paesi è già – come tutti sappiamo – abbondantemente cominciato e minaccia di cancellare chi non se ne è accorto. Oggi, sono le imprese che fanno la “guerra” e come ricorda il Gen. Jean parlando di geopolitica occorre riflettere sul fatto che il 40 per cento del commercio mondiale di beni e servizi è monopolizzato da 100 imprese. La guerra delle imprese non è certo convenzionale, è invisibile a volte anche dopo il raggiungimento degli obiettivi, è interna ed esterna, globale, senza confini e senza esclusione di colpi. Non è solo finanziaria, ma realizzata “con le informazioni” e le tecnologie (Information warfare). Una guerra economica che usa specialisti di varia natura integrandone, anche a loro insaputa, conoscenze e capacità, che può ricorrere all’ausilio di Stati sensibili alla geopolitica. Il suo scenario operativo è il mondo intero, l’obiettivo strategico non è più la conquista degli Stati, ma quella degli abitanti-consumatori dei Paesi dotati di mercati e risorse interessanti. L’impresa – anche come concetto – aumenta ovunque la sua forza, mentre lo Stato – anche come concetto – ovunque si ritrae e si fa “pensiero debole” persino nella mente dei politici. Vinceranno solo gli Stati “Super – modello” come gli USA, o “Modello” come l’Inghilterra, la Francia, la Germania o Israele e il Giappone. Stati in grado di coniugare con grande velocità ed efficacia il pubblico al privato, soprattutto grazie al potentissimo e strategico sviluppo tecnotronico delle loro imprese industriali e non. Sono da sempre d’accordo con Robert Steel che vede una crescente inevitabile sinergia tra “servizi segreti” pubblici e strutture “private” altamente specializzate, per assicurare il livello di informazione “geopolitica” ormai necessaria alla sopravvivenza. Occorre riflettere che negli USA, secondo Stell, il 75% delle informazioni sono prodotte dai privati che sono in grado di trattarne ed utilizzarne, addirittura, il 100%, contro il 25% raccolto dallo Stato che ne tratta e utilizza soltanto il 5%. Non ho strumenti per verificare questi dati, ma ritengo impensabile, come professionista della comunicazione, che un attacco “economico”, condotto con le informazioni, sia percepito prima da un servizio segreto di vecchio modello che dagli stessi attaccati o dagli operatori economici del Paese bersaglio. Attenzione, non sto parlando di “finanza via Internet”, più o meno “criminale”, ma di operazioni economico-strategiche, tipo “Guerra all’ AIRBUS”, combattute anche a colpi di “disinformazione” o di “guerra psicologica” o di “information warfare”. Ci rendiamo conto di delineare una rivoluzione copernicana, ipotizzando di far diventare i Servizi un organismo pubblico “aperto” e “interattivo” di raccolta, elaborazione, custodia e distribuzione di informazioni non più soltanto diretta ad un organo dello Stato, ma a più organi e, addirittura, ai cittadini. Occorre riflettere che tutta la Pubblica Amministrazione è custode di informazioni che spesso non ha senso mantenere segrete e che anzi se opportunamente liberate potrebbero produrre o accelerare lo sviluppo economico e sociale. Un processo che è già iniziato. Una riforma dei Servizi si inserisce perfettamente nell’altra rivoluzione, altrettanto copernicana, del modo di intendere i rapporti fra comunicazione e Pubblica Amministrazione che di per se stessa facilita una revisione dei rapporti fra i Servizi, gli apparati dello Stato e i cittadini. Una revisione che, naturalmente, non può prescindere dalla specifica peculiarità dei “prodotti” forniti dai Servizi e, quindi, dalla volontà del Legislatore di metterne a disposizione alcune classi con adeguate cautele. Un Legislatore che in questo momento storico si dichiara e ci sembra aperto a soluzioni innovative per sperimentare sempre più nella Pubblica Amministrazione soluzioni e metodi “imprenditoriali”.Mosca – A prescindere dalla peculiarità dell’attività di ogni singolo comparto della pubblica amministrazione e nel rispetto evidentemente di tale peculiarità, il limite da superare è proprio costituito dall’impostazione culturale che nelle pubbliche amministrazioni risente di una concezione antica dell’amministrazione molto poco partecipativa. La cultura della segretezza con l’eccezione della trasparenza deve far posto a quella della trasparenza con l’eccezione della segretezza. Mi sembra e mi si potrà dire che dico e affermo cose ovvie. Così non è, altrimenti non ne parleremmo. Penso proprio che la segretezza o la riservatezza – come dir si voglia – debba essere ispirata ad un rigoroso criterio di selettività che se rispettato, allora sì diventa ragionevole ed accettato unanimemente. Abolire quindi la cultura “proprietaria” può significare agevolare pure il versante interno della comunicazione istituzionale altrettanto indispensabile per essere posti nelle migliori condizioni di assumere valide decisioni ai vari livelli. Mi rendo conto che non sia proprio facile aderire a questo processo di integrazione, ma non vedo alternative salvo la ripetizione di inutili concorrenze, scontri, rincorse che non giovano ad alcuno e danneggiano tutti. Forse spetta agli stessi servizi di intelligence fare un primo passo perché in maniera reciproca venga ad essere accettata una nuova logica e un sistema di sinergie più moderno. Se questa impostazione la riporto così in rapporti tra le componenti del “sistema intelligence” trovo più difficile accettare limiti alla comunicazione reciproca che se insufficiente, rischia inevitabilmente di compromettere l’essenza stessa del sistema. Ovviamente, vanno suggerite procedure e garanzie che agevolino le sinergie e che siano controllate costantemente per evitare di debordare o andare oltre quello che intelligentemente si è concordato. In tutto ciò l’intelligenza degli uomini e delle donne dell’intelligence gioca un ruolo determinante.Caligiuri – Nella legge istitutiva dei nuovi Servizi del 1977 si stabilisce l’obbligo dello scambio di informazioni reciproco. Infatti, in essa è esplicitamente previsto che “il SISMI ed il SISDe debbono prestarsi reciproca collaborazione e assistenza” (art. 7) e poi che “tutti gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria debbono fornire ogni possibile cooperazione agli agenti dei Servizi” (art. 9). Questo finora non sempre è avvenuto in modo sufficiente e tali disfunzioni certamente hanno nuociuto alla sicurezza ed al benessere dello Stato. Il problema della raccolta, della selezione, dell’analisi e dell’integrazione delle informazioni è l’attività costituiva dell’intelligence, esaltandone e giustificandone la funzione. Pertanto le informazioni, che sono prodotte sempre in quantità maggiore e provengono da fonti aperte e chiuse, debbono essere rapidamente condivise per renderle utili e complete per il decisore pubblico. Questo al momento non avviene e quindi occorre mettere in atto dei procedimenti che consentano questa circolazione. Sarebbe pertanto auspicabile che nella nuova legge sui Servizi questo sia previsto in modo più efficace di oggi, ma dovrà riguardare non solo lo scambio di informazioni tra i Servizi ma anche con tutte le altre organizzazioni dello Stato. Peraltro, l’utilizzo delle banche dati informatiche e delle nuove tecnologie facilita enormemente lo scambio delle informazioni. Occorre allora accelerare decisamente il processo di informatizzazione della pubblica amministrazione ed investire nella ricerca scientifica nei settori di interesse dell’intelligence. La selezione e la formazione del personale è un altro elemento decisivo per la circolazione delle informazioni ed una efficace azione va svolta, nella riorganizzazione della burocrazia dello Stato e, in particolare, nel settore della sicurezza, dove spesso la concorrenza tra i vari corpi è dannosa e costosa. Ovviamente, le informazioni riservate vanno fatte circolare ai massimi livelli istituzionali e riunioni periodiche dei responsabili della sicurezza del Paese sicuramente favoriscono decisioni adeguate nell’interesse nazionale. Gli staff che collaborano con i vertici della sicurezza dovrebbero tenere nella massima attenzione l’importanza di condividere tali informazioni, in particolare quelle sulla lotta alla criminalità, che assume sempre di più caratteristiche transnazionali a fronte delle chiusure nazionali degli Stati legali. Non solo l’efficienza, ma anche i costi saranno sensibilmente ridotti, evitando la duplicazione di funzioni, che portano ritardi, sprechi e risultati scadenti. C’è quindi necessità di integrazione nella raccolta delle informazioni, che richiama la comunicazione istituzionale interna, la circolazione, la trasparenza e la completezza delle informazioni all’interno dello Stato e tra gli Stati alleati. Un altro aspetto che attualmente mi sembra trascurato ma che invece è da considerare più approfonditamente è l’integrazione delle fonti aperte. Dal punto di vista della comunicazione istituzionale, vengono diffuse informazioni sugli stessi temi da più soggetti pubblici, che non dialogano tra di loro. Questo elemento va tenuto presente da parte degli operatori dell’intelligence, i quali hanno anche il compito di integrare tali informazioni e di confrontarle con altre fonti aperte, a cominciare da quelle degli organi di informazione, facendo attenzione soprattutto alle pubblicazioni ed ai siti specializzati. Infine, tale confronto va effettuato con le fonti chiuse ed è proprio in quest’ambito che i servizi giustificano la propria necessità e la propria esistenza. Altro elemento importante delle fonti aperte istituzionali è che molti materiali prodotti da e per gli organismi dello Stato (come rapporti diplomatici, relazioni parlamentari, rapporti di esperti, ricerche di istituzioni pubbliche e private oltre che delle università, ecc.) spesso sono o di difficile accesso o poco conosciute se non addirittura per nulla esaminate. Questa mole enorme di informazioni invece spesso contiene indicazioni importanti per fornire elementi utili al decisore pubblico, quando deve tutelare l’interesse nazionale, accezione quanto mai vasta rispetto al passato. Si ravvisa quindi la necessità del coordinamento delle attività di intelligence, svolte a vario titolo da soggetti diversi che, in qualche modo, devono obbligatoriamente comunicare tra loro, e non solo perché specifiche disposizioni di legge lo prevedono.Sorice – Quello della comunicazione interna è il vero nervo scoperto di tutta la Pubblica Amministrazione: non è un caso che spesso le campagne di comunicazione esterna (a loro volta esternalizzate) falliscono proprio a causa della cattiva linea di comunicazione interna. Non è un caso, neanche, che la riforma Bassanini prevedesse un grosso input alla comunicazione interna: il cosiddetto “back-office” è importante quanto il “front-office”, anzi i due momenti non possono che essere congiunti all’interno di un progetto complessivo di comunicazione integrata. La comunicazione istituzionale del nostro Paese si sta evolvendo. Nonostante certi segnali di arretratezza mi sembra di scorgere una nuova classe di funzionari e dirigenti più sensibili alle logiche della comunicazione. Il fatto è che poi molti ritengono ancora la comunicazione – specie quella interna – come una variabile dei meccanismi organizzativi. E invece non è così: la comunicazione è la modalità che struttura l’organizzazione; non una variabile, quindi, ma l’asse su cui informare l’attività strategica e organizzativa della Pubblica Amministrazione. Questa rivoluzione copernicana nel modo di intendere il rapporto fra comunicazione e Pubblica Amministrazione sta alla base anche di una revisione del rapporto fra i Servizi e gli apparati dello Stato. Una revisione che, naturalmente, non può prescindere dalla specifica peculiarità dei “prodotti” forniti dai Servizi stessi.“Per Aspera ad Veritatem”, periodico quadrimestrale che si propone, come recita la sua stessa intestazione, di essere una Rivista di intelligence e cultura professionale, ha edito il suo primo numero nell’anno 1995. La significativa intuizione della portata innovativa di un tale strumento si deve proprio al Prefetto Carlo MOSCA, che ne fu il fondatore con il Direttore del SISDE dell’epoca Prefetto Gaetano MARINO. La Rivista ha rappresentato indubbiamente una novità editoriale assoluta, mancando in questo settore, a livello nazionale, un punto di riferimento che si prefiggesse lo scopo di costituire apposita sede di costruttiva riflessione sulle tematiche proprie dell’intelligence, occasione di scambio culturale e professionale nonché strumento di comunicazione istituzionale, rivolta sia all’interno delle strutture informative che all’esterno, nell’ambito del circuito italiano e straniero cui viene distribuita – circuito che, peraltro, si è sempre più ampliato grazie all’interesse tributato anche da ambienti del tutto lontani ed estranei a quello degli OO.II. Ci piacerebbe, per concludere questo interessante Forum, registrare le vostre opinioni sul valore e significato di questa esperienza e sul ruolo che potrà ancora svolgere in futuro.Caligiuri – Da quanto abbiamo esposto finora, sembra ci siano ottime ragioni affinché l’intelligence venga comunicata alla pubblica opinione in modo più ampio e professionale, per evitare che l’immagine dei Servizi venga imposta esclusivamente dall’esterno, come finora in Italia è prevalentemente avvenuto. Tanto più che nel nostro Paese i fatti anche della storia recente vengono spesso interpretati ideologicamente. Se si esclude la relazione semestrale del Governo al Parlamento sull’attività dei Servizi, il primo strumento di comunicazione ufficiale posto in essere nel nostro Paese è il periodico promosso dal Sisde “Per Aspera ad Veritatem”, che è stata – e continua a rimanere – la prima rivista italiana di intelligence, coprendo un vuoto prima di tutto culturale. Dal 1999 è anche presente su Internet ed, insieme alla Commissione Parlamentare sui Servizi di sicurezza, è l’unica presenza istituzionale dell’intelligence nel cyberspazio. Nei 18 numeri finora pubblicati (a cui va aggiunto un supplemento), oltre agli interventi dei rappresentanti istituzionali dell’intelligence, si registra una notevole apertura verso l’esterno, riportando spesso gli interventi di prestigiosi esponenti della società italiana, raccolti in occasione di lezioni presso la Scuola di Addestramento del Sisde oppure sotto forma di forum, di interviste e di interventi all’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola di Addestramento. C’è poi una visione globale del settore, con contributi scientifici dei maggiori studiosi ed operatori internazionali, oltre ad essere efficacemente riportate le esperienze ed il funzionamento degli altri Servizi esteri, compreso l’esame dei siti Internet. Molto utili sono sia la documentazione di interesse, con le norme di riferimento provenienti anche da altre Nazioni e la rassegna bibliografica che spazia su testi scritti in tutto il mondo. Essendo diretta emanazione di un Servizio, ne è in un certo senso la voce ufficiale, ma di tale evidente situazione non se ne è mai fatto abuso. L’attuale taglio di analisi e ricerca, a mio avviso, non solo va mantenuto ma anche potenziato, così come la rivista potrebbe essere presto venduta almeno nelle librerie. “Per Aspera ad Veritatem” andrebbe fatta conoscere di più, contemporaneamente con la maggiore apertura verso l’esterno, atteso che occorre investire per comunicare in modo corretto il ruolo e l’importanza dell’intelligence nel mondo contemporaneo. Peraltro, la rivista potrebbe avere un ruolo non secondario in vista dell’auspicata, e speriamo imminente, riforma dei Servizi. In ogni Nazione è così, ma in Italia vanno poste in evidenza, nelle fasi operative, gli aspetti etici e morali dell’intelligence. E non a caso, lo studioso americano Mark M. Lowenthal conclude il suo ultimo libro dedicato principalmente all’ambito accademico e che è ancora inedito in Italia, ponendo questo tema come fondamentale per il settore. “Per Aspera ad Veritatem” è una pubblicazione rigorosa che certamente ha contributo alla ripresa della credibilità della nostra intelligence, facendo veicolare gratuitamente un importante strumento di conoscenza non solo all’interno dei Servizi ma anche alle autorità dello Stato oltre che agli ambiti che direttamente od indirettamente sono interessati alla materia. Il mondo dei media, delle imprese e dell’università credo che siano i settori dove maggiormente occorra rafforzare la diffusione della rivista, e tramite essa la cultura dell’intelligence, mentre forse – ma questa è una considerazione strettamente personale – anche il cambiamento del nome potrebbe agevolare.Di Nunzio – La rivista “Per Aspera ad veritatem” è indubbiamente uno strumento di grande comunicazione istituzionale, capace di svolgere diverse funzioni contemporaneamente. Siamo in presenza di un vero strumento di pubbliche relazioni e di cultura non soltanto professionale in grado di trasmettere un’identità forte del SISDE, avvicinando e avvincendo un pubblico non soltanto di addetti ai lavori. La sua mole, i suoi contenuti, la sua elegante e austera veste grafica, come pure la sua distribuzione ne fanno più una rivista di riflessione e di approfondimento che di vera e propria divulgazione. Ritengo che così sia giusto: ogni pubblico ha bisogno di un adeguato strumento e di un altrettanto adeguato linguaggio. Veramente notevole ed apprezzabile lo sforzo di aprirsi al mondo esterno, accettando e proponendo collaborazioni esterne. Altrettanto pregevole l’apertura ai contributi internazionali, anche in lingua madre, e l’uso di presentare parti tradotte in inglese. Vasto il repertorio che è anche in grado di alleggerire i contenuti, proponendo rubriche quali “curiosità storiche”, “recensioni e segnalazioni bibliografiche”. Probabilmente, l’aspetto così austero può scoraggiare la lettura dei poco interessati a “Per Aspera ad veritatem”, ma è altrettanto vero che la ripartizione tematica e la titolatura posssono alleggerire la fatica dei lettori più pigri. Non vedo alcun motivo di cambiare. Non siamo in presenza di un house organ diretto ai dipendenti e magari distribuito in edicola e, quindi, bisognoso di immagini, testi ed impaginazione proprie alla cultura così detta di massa, ma di fronte ad uno strumento di comunicazione istituzionale molto preciso e definito in grado, ripeto, di trasmettere un’immagine ed un’identità assai elevata del SISDE. A volte ridurre i segni di distinzione significa confondersi con il resto, ma a quel punto sono le leggi della comunicazione ad imporlo, nasce immediata l’esigenza di rincorrere il pubblico, attestando sempre più in basso il livello culturale nella speranza di raggiungere quanti più lettori possibile. L’unica cosa che potrei suggerire, prima di ringraziare per avermi dato l’opportunità di partecipare a questo stimolante dibattito, è quella di modificare la periodicità e la scadenza di “Per Aspera ad veritatem”, ritengo, infatti, che andrebbero attestate su uscite più certe e, forse, meno distanti.Sorice – Io conservo gelosamente la collezione completa della rivista che trovo, dal punto di vista socioculturale, di elevatissimo significato per il Paese. Si tratta, infatti, di uno strumento che, persino a prescindere dai contenuti, contribuisce a definire una nuova identità del SISDe. Cultura professionale ma anche dibattito culturale, approfondimento su grandi temi istituzionali, recensioni e cultura diffusa e poi – a mio avviso fondamentali – le pagine che si aprono sulla realtà internazionale e che ospitano contributi provenienti da tutta Europa e non solo. Se si legge “Per Aspera ad Veritatem” sembrano vecchi e lontani tutti i luoghi comuni sui servizi di intelligence e persino l’immaginario cinematografico sulle “spie” appare arcaico. Mi sembra, questo, un merito non piccolo della rivista. Il secondo merito risiede nella sua potenzialità quale strumento di confronto e incontro con la società civile: il target della rivista è, da questo punto di vista, emblematicamente efficace. Per non sembrare troppo entusiasta rilevo anche alcuni margini di miglioramento. Innanzitutto sul versante dei destinatari che dovrebbero, credo, aumentare con un maggior coinvolgimento delle professionalità intellettuali del Paese. Poi lo stile: si potrebbe, forse, “sburocratizzare” – consentitemi il brutto neologismo – almeno per quanto più squisitamente “giornalistico”. Anche lo stile grafico potrebbe essere migliorato: sempre mantenendo un rigore, una sobrietà e una serietà nell’impostazione credo si potrebbe rendere più piacevole il lay-out, ma qui occorrerebbe il giudizio di un esperto vero. Infine rivolgo un invito: continuare con questo spirito di apertura, anzi incrementarne le potenzialità. La rivista può veramente essere un valido strumento di connessione con l’esterno nonché un efficace mezzo di costruzione di un’identità interna sempre più definita. La rivista finora non si è limitata a essere un “house organ” né ha cercato facili scorciatoie propagandistiche: è stata uno strumento di comunicazione. Può continuare a esserlo sempre di più.Mosca – Il successo, anche a livello europeo, dell’iniziativa editoriale “Per Aspera ad Veritatem” è così oggettivamente forte che sembra quasi eccessivo parlarne soprattutto per chi l’ha voluta con caparbia determinazione. La rivista è diventata l’unica sede, in quanto panorama così difficile della comunicazione istituzionale, anche per un importante scambio professionale, pure esso non facile per le scarse occasioni esistenti. Sette anni di rivista sono la dimostrazione poi di un impegno e di una vitalità che vanno sostenuti proprio per la sua presenza coraggiosa e valida, vanno sottolineati per il significato incisivo dell’esperienza, per il ruolo che essa potrà avere pure nell’immediato futuro, il futuro che spero sia fatto da stagioni più favorevoli e più disposte ad apprezzare il mondo dell’intelligence. Immagino a quanto la rivista potrà fare per accreditare la necessaria riforma degli Organismi di informazione e per illustrarne, una volta approvata, i suoi contenuti, la sua struttura, i suoi momenti essenziali, le sue luci e le sue ombre. Mi auguro che ne venga potenziata la diffusione, in modo che la rivista raggiunga tutte le librerie nazionali e quindi tanti altri utenti. Solo così l’ampliamento del circuito conoscitivo farà ben crescere la consapevolezza del valore e della utilità degli apparati di intelligence, purtroppo oggi ancora confinati in uno spazio che quando non è di disistima per il lavoro svolto, è riempito da quella indifferenza che fa ancora più male. Mi farebbe piacere peraltro che l’iniziativa istituzionale di “Per Aspera ad Veritatem” non resti isolata ed unica voce, ma sia al più presto accompagnata da altre voci soprattutto diverse da quelle istituzionali in maniera che il contributo alla costruzione di un moderno sistema di intelligence ne tragga il massimo giovamento e produca la più ampia soddisfazione per la Comunità nazionale. FONTE: https://gnosis.aisi.gov.it/sito/Rivista20.nsf/servnavig/7 |
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